Non è facile per me, nonostante la professione che svolgo, parlare – pardon – scrivere a cuore aperto e con l’animo leggero di ciò che da tempo cerco di nascondere, non solo agli altri, ma sopratutto a me stessa, perché temo che, se lo rendessi manifesto, potrebbe farmi ancora più male. E invece no, è giunto il momento di aprire il rubinetto e di fare scorrere, come se fosse acqua tiepida, quel sentimento complesso e difficile da etichettare, che mi pervade anche la mente e che sovente mi offusca i pensieri.
Te ne sei andato che ero poco più che una bambina, quella fredda mattina di quel terribile 31 ottobre del 1991, che io non dimenticherò mai: una telefonata fugace, una corsa in ospedale e ancora prima in ambulanza, ma tu non c’eri già più! Te ne sei andato senza dire una parola, senza fare alcun rumore e senza disturbare.
Del resto tu sei sempre stato un uomo dal cuore grande sì, ma anche profondamente riservato. In punta di piedi hai chiuso i tuoi occhi dolci e hai fatto cadere le tue membra stanche sull’asfalto di quel marciapiede che io, anche dopo la tua dipartita terrena, sono stata costretta a calcare tante volte.
Ho osservato a lungo la fermata dell’autobus, di quell’autobus che quel giovane autista ha fermato, incurante che fosse in mezzo alla strada, per tentare di aiutarti. Gli sei morto tra le braccia. Tra le braccia di un estraneo, che però in quel momento si è comportato come un figlio amorevole. Quante volte mi sono chiesta se e perché quella mattina, nonostante il freddo, sei voluto uscire: d’accordo, eri solito fare due passi al mattino per andare a prendere il pane o compiere piccole commissioni per te e tua moglie, ma se non fossi uscito di casa quel giorno, saresti ancora vivo? Saresti morto ugualmente il 31 ottobre del 1991?
Non lo so, non so darmi una risposta sicura e netta al riguardo, ma ora so, oggi che sono passati più di 20 anni e quasi 30 da allora, che da quel giorno io ho incominciato ad avere paura, non della morte, perché quella è inevitabile per gli esseri viventi, ma della perdita. Sì, io ho paura di perdere gli oggetti, di perdere le cose e le persone.
Ho paura di perdere ricordi, frasi e pensieri.
Ho paura di non saper cogliere l’attimo, quell’attimo che ora vive e che tra poco scomparirà, utile per professare una parola o per compiere un abbraccio. La vita non torna indietro, questo lo so, è un fiume in piena che ti travolge e che, il più delle volte, non riesci ad ammansire: provi a nuotare, ma la corrente è troppo forte e tu fatichi a stare a galla. E la riva non la vedi, non la vedi più!
Quanta nebbia c’è intorno a me in certe giornate e in certe nottate che sembrano non finire mai. La vedi anche tu da lassù?
Sto osservando fuori dalla finestra, il cielo mi abbraccia con la sua tinta scolorita e fioca e le nuvole si muovono lente.
Vedo case, campi, alberi e vita che scorre ora piano, ora più veloce, intorno e accanto a me. Ma non vedo tanta luce.
Eppure, lo so, che c’è e che ci deve essere, perché lei è vita, me lo hai insegnato tu in quei pomeriggi domenicali, semplici e nel contempo speciali, sorridendomi e tenendomi tra le tue braccia. Ciao luce, il mio è un arrivederci, perché io un giorno ti rincontrerò!
Laura Gorini