La prova di maturità consiste nello spruzzare materiale infiammabile su un braccio del ragazzo e con l’accendino dargli fuoco, finendo direttamente all’ospedale per le bruciature, se non per il coma etilico in agguato. La prova di virilità è nella violenza perpetrata sulla donna, sulla ragazza, a volte poco più che bambina.
In entrambi i casi il risultato è devastante, vittima e carnefice con la vita depredata della sua dignità, e senza rispetto la vita rimane spesso spezzata ancor prima di nascere. Comportamenti autolesionistici o violenti, abituano al colpo secco, alla carne lacerata, ma disabituano alla relazione, sono la scopiazzatura di una prassi ormai consolidata nella cartellonistica adulta, inducono a nascondere il disagio, a mimetizzare fenomeni ripetuti che diventano dato esponenziale.
Ma cosa spinge un giovanissimo a farsi del male in questa maniera, quale la molla a diventare l’infame protagonista del dolore altrui?
Un adolescente non diventa “grande” rielaborando solamente il carico delle informazioni o di esperienze sociali, ma attraverso uno scambio relazionale ripetuto e interagendo con l’ambiente che lo accoglie e lo circonda.
Forse occorre chiederci quali sono i messaggi e le notizie, l’incoraggiamento che va dritto sparato al cuore di un ragazzo tutto impettito e pronto allo sbarco immediato. Un razzo, un tracciante, le orme da seguire per bruciare le tappe, accorciare le distanze da quanto mi serve, da quanto non ho, da tutto ciò che invece voglio e non posso permettermi. Invece di affidarmi a un lavoro prospettico, un impegno e un progetto da sviluppare tenacemente, la preferenza è imitare ed emulare il peggio, usando e usurpando le regole, le norme e le leggi. Il beverone in una mano, la canna tra le labbra, il braccio in fiamme, l’umiliazione della violenza alla ragazzina inerme, forza e potere si scambiano i ruoli, barano e vincono senza alcun soprassalto di dignità, è una battaglia alla vita, una dimensione che non consente di fare prigionieri, di venire a patti con la propria coscienza.
Esercitare una strategia di contrasto, significa evitare prevenzioni a basso costo, sottolineando il degrado della violenza come forma di comunicazione, come inno bacato a qualsiasi supremazia, domandandoci quale effetto possono avere queste declinazioni in chi esorcizza la paura di vivere con l’adrenalina dei rischi estremi, in chi sfida la vita con la morte, in chi combatte la vita per sopravviverle. C’è necessità di una costante prossimità, di stare spalla a spalla con le nuove generazioni e con le loro idee e passioni, c’è urgenza di responsabilizzare le persone più giovani, è questo il terreno fertile per formare individui maturi e consapevoli. I detriti causati dalle prove di forza e di potere, di vita e di morte, sono il risultato del “mito della facilità”, della incultura del disimparare a scapito dell’imparare. La famiglia e la scuola sono binomio inscindibile per il consolidamento dei valori più importanti, ma lo sono finchè non inciampano nelle superficialità e indifferenze che alimentano intolleranza per le diversità in ogni forma, così la vita diventa una somma algebrica di desideri irrealizzabili, di insuccessi, di fallimenti, una tragedia di cui siamo tutti corresponsabili.
Vincenzo Andraous