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TURKISH BLUES

La bocca del traghetto li aveva vomitati dieci giorni prima sul molo di Durazzo, avevano già percorso più di quattromila chilometri verso Est e la temperatura ormai sfiorava i quaranta gradi. Arturo cominciava ad averne abbastanza di quel caldo, e strada davanti ne avevano ancora un sacco. Superarono non senza difficoltà la tratta che costeggiava un lago salato dalle parti di Aksaray e si fermarono in una catapecchia sul bordo della strada che aveva le sembianze di un punto di ristoro, parcheggiarono le motociclette, si tolsero il casco ed entrarono. Il locale era relativamente fresco, o almeno ombreggiato, e si sedettero sotto il ventilatore a soffitto. Immediatamente arrivò un battaglione di mosche che finora si era dedicato a succhiare il cadavere di un agnello appeso dietro al proprietario del bazar, proprio sopra una pila di stoviglie messe ad asciugare. Arturo pensò che dovevano puzzare parecchio, dopo dieci giorni praticamente lessati dentro il giubbotto di pelle. La baracca in cui si trovavano era l’unico segno di civiltà che avevano incrociato negli ultimi trecento chilometri di strada dritta e polverosa, spazzata da un vento laterale fastidiosissimo che non permetteva di andare a più di sessanta all’ora, avevano fame e decisero di fare una sosta. Carlotta diventava isterica se digiunava troppo a lungo, e quel viaggio non si era ancora assestato. Arturo aveva sbagliato due volte strada ed erano finiti fuori rotta, perdendosi un paio di siti archeologici che avevano programmato di visitare, inoltre la moto di lei dava qualche segnale di insofferenza e ogni tanto perdeva un colpo.

Lui glielo aveva anche raccomandato, prima di partire: “portamela a casa che te la controllo a fondo”, ma lei aveva scrollato le spalle dicendo che la sua moto non l’avrebbe mai tradita.
Arturo aveva annusato fin da piccolo l’odore dell’olio e della benzina, nell’officina di suo padre, e ogni volta che faceva il pieno alla sua vecchia moto non resisteva alla tentazione di mettere il naso nel serbatoio. Non aveva mai posseduto un’automobile e se ne vantava parecchio ai raduni cui spesso partecipava.
Era stato proprio ad un raduno che aveva conosciuto Carlotta, tre anni prima. Erano seduti uno di fronte all’altra e non riuscivano a staccarsi gli occhi di dosso. Con la scusa di uscire a fumare si baciarono, e fu l’inizio di una gran bella storia. Con lei accanto, Arturo aveva ripreso fiducia nella vita, ma questo viaggio stava davvero mettendo a dura prova la loro relazione. Cercò di non pensarci, spiegò la cartina sul tavolo bisunto e provò a raccapezzarsi. Carlotta potè finalmente fare pipì, ma tornò dalla “toilette” inorridita: “La finestra del bagno è aperta su una stanza dove stanno macellando degli agnelli…”
“Beh, direi chilometro zero nel vero senso della parola” borbottò Arturo. Ci mancava solo che Carlotta non volesse fermarsi perché non sopportava la vista del sangue, pensò.

Erano ai ferri corti già dalla mattina precedente: complice il gran caldo avevano avuto un’accesa discussione su come e dove pernottare, con Arturo che sognava una notte a 15 gradi, nudo e abbracciato al condizionatore della camera di un hotel, mentre Carlotta voleva accamparsi sulle sponde di un fiume un centinaio di chilometri più in là. Vinse lei, ma quando arrivarono era buio, il fiume era completamente asciutto, piantarono la tenda su una distesa di sassi tra milioni di vespe che ronzavano lì intorno e cercarono di dormire un po’, sfiniti dall’afa opprimente. L’oste si avvicinò al loro tavolo. La bozza di un sorriso gli apriva la faccia, come una mezzaluna bianca in mezzo al nero della barba ispida. Bofonchiò qualcosa in un idioma incomprensibile e Arturo lo seguì in cucina, passando dietro al bancone, sapendo che era l’unico modo per capire cosa bollisse nei pentoloni che sfamavano i camionisti di passaggio sulla rotta per l’Iran, e poi giù attraverso il Pakistan fino all’India. Tra teste di pecora in umido e spiedini di montone, che stavano sulla griglia del cortile retrostante, scelse questi ultimi, e riuscì a ordinare anche un’insalata di pomodori e cipolle, oltre a una pagnotta abbrustolita, una porzione di salsa piccante e due bottiglie d’acqua fresca. Avrebbe avuto voglia di un’enorme birra, ma trovarla in quelle zone era praticamente impossibile. Arturo e Carlotta avevano progettato quel viaggio durante l’ultimo inverno, immaginandolo colorato, pieno di odori e sapori, inframmezzato da giornate stesi al sole sulle spiagge dei laghi che avevano incrociato lungo il cammino. La realtà appariva però diversa, e la tensione saliva di ora in ora. Comunicavano a monosillabi senza guardarsi, mentre masticavano il pranzo pensando ognuno ai fatti propri.

“Che pensi, Arturo?” chiese lei infine, guardando il bicchiere colmo d’acqua nel quale nuotava una mosca. “Che sei bellissima, che sono davvero stanco, che ho voglia di una birra gelata e di un letto comodo e che non so se ce la faccio ad arrivare fin laggiù”, rispose lui.
“Già… e che ne pensi di una deviazione verso Nord? Potremmo prenderci una pausa sulle sponde del Mar Nero, dalle parti di Trebisonda, e magari proseguire con calma entrando in Georgia lungo la strada costiera, come feci anni fa con Marco. Ti ho già parlato di Marco, vero?… Comunque da quelle parti è pieno di villaggi e piccoli hotel, hanno l’aria condizionata, magari un paio di giorni al fresco potrebbero rimetterci in sesto…”
“Eccola qui Carlotta” pensò Arturo, “pronta a tirare le redini un attimo prima che mi imbizzarrisca del tutto”. A volte gli pareva che giocasse come un gatto col topo, angelica e diabolica al tempo stesso, flessibile come un giunco che si piegava al vento e sempre pronta a tirare frustate. Come quando gli parlava dei suoi ex e dei lunghi viaggi che aveva fatto in precedenza, mai lesinando sui particolari più piccanti. Arturo l’ascoltava per un po’, poi si chiudeva in un lungo silenzio rimuginando sul suo passato, chiedendosi se sarebbe stato mai all’altezza. Come in un gioco, lei a quel punto gli si avvicinava sinuosa e lo ammaliava con i suoi occhi languidi, elemosinando un sorriso e un bacio. Lui sapeva benissimo di essere alla sua mercé, ma non se ne preoccupava, lasciava che le cose prendessero la piega che Carlotta voleva, in fondo curioso di sapere come sarebbe finita.
“Mi sembra una buona idea”, annuì sorridendo.
Passarono ancora una notte in tenda, accampati nel piazzale di un distributore di benzina. Il proprietario, un ragazzo che aveva lavorato a Roma anni prima e parlava qualche parola di inglese, aveva loro offerto un po’ di spazio e la possibilità di usare la doccia che di solito era riservata ai camionisti di passaggio, così ne approfittarono.
L’indomani mattina, prima che il sole facesse sentire la sua calorosa presenza, smontarono il bivacco, caricarono le moto e si rimisero in strada, direzione mar Nero. Viaggiarono per più di dieci ore, e finalmente si fermarono in un villaggio una ventina di chilometri a Est di Trebisonda, dove trovarono un piccolo albergo affacciato sulla spiaggia. La camera sembrava dignitosa, considerato il luogo in cui si trovavano. C’era sì qualche buco nelle lenzuola e l’intonaco necessitava di una rinfrescata, ma il ronzio del condizionatore rallegrò immediatamente Arturo, che iniziò a smanettare sul termostato cercando di abbassare la temperatura di almeno dieci gradi.
“Tra un po’ nevica”, sorrise sorniona Carlotta, “finisce che mi dovrai scaldare, stanotte…”
La cena fu, finalmente, a base di pesce alla griglia, pane fresco e birra leggera, bionda e spumeggiante. La tensione accumulata nei giorni precedenti si sciolse piano piano tra risate e carezze, tra i racconti di lei e gli sfottò di lui, mentre il sole si tuffava nel mare di fronte alla terrazza del piccolo albergo. Poco distante, dalla cima del minareto, un altoparlante chiamava a raccolta i fedeli per la preghiera della sera, e il canto del muezzin sovrastava le loro voci. Si tennero per mano guardando il tramonto, in attesa che la moschea si riempisse e tornasse il silenzio…
Massimo Zucca

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