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TRATTO DA “MEMORIE DISORDINATE DI UN PENDOLARE”

ANNI CINQUANTA:
Il Treno delle cinque e quarantacinque.

EL TRENO ! EL TRENO !! EL TRENO !!!
L’urlo rotolando lungo il viale della stazione bucando nebbie e incurante di pioggia, vento e neve, come l’eco di un colpo di pistola sparato da un invisibile starter, andava a sbattere contro i timpani dei soliti ritardatari. ARRIVA ! ARRIVA !! ARRIVA !!! VIA! VIAA !! VIAAA !!!
Scatti disperati. Chi a piedi, chi in bicicletta e chi alla disperata ricerca di un passaggio da un amico. Catene allo spasimo con denti di corone che digrignavano. Ruote che slittavano, sassi che volavano: curve prese contromano. Borse che sbattevano contro gambe e ruote mettendo a dura prova tappi e coperchi di pentolini, con minestre o altro, preparati la sera prima. Ombrelli rivoltati dal vento. Equilibrismi sulla strada lastricata di ghiaccio.
“NON POSSO PERDERLO.
GIURO DOMANI MI ALZO PRIMA”

Il giorno dopo la stessa cosa. Biciclette scaraventate con rabbia contro la staccionata come fossero loro le colpevoli del ritardo.
Capitava. Si capitava quasi ogni mattina che qualche incallito dormiglione, resosi conto che non sarebbe arrivato in stazione per tempo, con scatto felino si dirigesse direttamente al passaggio a livello e con acrobatico balzo atterrasse sul predellino del treno ancora in lente ripresa. C’era però il rischio di trovare la porta chiusa dall’interno e dover così rimanere appeso fuori fino alla fermata successiva. D’estate poteva essere anche divertente, ma d’inverno…
Per fortuna c’era sempre qualche coraggioso che, sfidando le minacce del Capo Treno, teneva la porta della carrozza aperta, impedendone così la partenza, finché tutti i ritardatari non erano saliti. Ulteriore fortuna quando la locomotiva aveva bisogno di rifornimento d’acqua: era l’unica pompa sulla tratta Brescia-Piadena.
IL TRENO DELLE CINQUE E QUARANTACINQUE. Fedele amico che tutte le mattine, con strattoni, sobbalzi e brusche frenate ci portava a destinazione. Confidenzialmente lo chiamavamo: GAMBADILEGNO.
Anch’io diventai un suo amico: un pendolare.
Eravamo alla fine degli anni cinquanta.
Non ero quasi mai in ritardo. Sveglia alle cinque, rinfrescata alla fontana fuori casa sia d’estate che d’inverno. Colazione, borsa già pronta con quotidiana raccomandazione di tenerla sempre diritta e poi via a piedi.
Strada buia, non asfaltata, percorsa da ombre solitarie o a gruppi. Non si udivano voci.
Saluti che sembravano grugniti. Assonnati e assorti ognuno nei propri pensieri.
Testa bassa, tutti nella stessa direzione con occhi semichiusi: la strada si conosceva a memoria. Sembrava una silenziosa processione.
SALA D’ASPETTO: chi seduto, chi in piedi, d’inverno tutti intorno alla stufa. Chi accendeva la prima sigaretta. Chi affacciato alla porta osservava il movimento sul marciapiede.
Apertura segnale con suoneria e poco dopo sbuffando, facendo tremare i vetri, arrivava il treno. Pendolari che salgono, pochi scendono.
Carrozze una diversa dall’altra. D’inverno alcune troppo calde e altre completamente fredde. Trascinate da un’enorme nera locomotiva a carbone. Un macchinista e un fuochista appoggiati al parapetto anneriti dal fumo scaricato dall’alto camino che investiva anche i viaggiatori affacciati ai finestrini.
Sul treno ognuno andava alla ricerca del solito posto e degli abituali compagni di viaggio.
Chi negli scompartimenti chiusi per rimettersi a dormire e chi nelle carrozze aperte per leggere o parlare. Tutto in legno. Tutto sempre sporco. Tendine ai finestrini luride e puzzolenti.
Lunghi corridoi con passaggi comunicanti traballanti e rumorosi.
Sedili da pulire ogni mattina. Borse sistemate su portapacchi stretti senza parapetti e nessuna protezione che a causa dei frequenti scossoni del treno si inclinavano causando la fuoriuscita di liquidi, da bottiglie non tappate bene, sulle teste assonnate dei pendolari.
Dopo tre fischi. Che sembravano lamenti, partiva sbuffando. Rallentava poi riprendeva con violenti e rabbiosi strattoni facendone slittare le ruote. Sembrava singhiozzasse: forse era stanco. Fermava nelle stazioni con stridio di freni, al buio si poteva vederne le scintille. Nell’attesa ansimava. Il fuochista gli riempiva la pancia con palate di carbone: doveva mantenere la temperatura dell’acqua. Il macchinista scendeva a controllare che tutto fosse a posto. Le salite dei pendolari erano movimentate e rumorose: sembravano veri e propri assalti.
Porte aperte e sbattute con violenza, spintoni, grida, imprecazioni di chi già sul treno si era appena addormentato ed in malo modo svegliato. Così tutte le mattine, per settimane, mesi ed anni. Il viaggio durava circa un’ora fra fermate e lunghe soste ai segnali. La locomotiva, con un fischio che sembrava di liberazione, entrava nella stazione di Brescia. Ancora prima che il treno si fermasse le porte delle carrozze erano spalancate con pendolari già in posizione per il salto. Si tuffavano giù per le scale del sottopassaggio come stessero disputando una gara. Chi correva da una parte, chi dall’altra. Chi tornava sul treno per riprendere cose dimenticate. Chi salendo in superficie saltava due gradini alla volta con il rischio di inciampare e sbattere la borsa già stravolta rischiando di rimanere senza pranzo. Chi con affannosa corsa saltava su un altro treno già messosi in movimento. Sembrava di vedere un nido di formiche impazzite. C’era chi, nonostante il trambusto, continuasse a dormire finendo con il treno al binario morto: doveva ritornare a piedi lungo i binari.
VIA | VIAA !! VIAAA !!!
Chi prima arriva al deposito delle biciclette prima riparte. Si formavano caotici ingorghi e frequenti erano le discussioni. Biciclette che si incastravano, catene che saltavano. Frenetici pompaggi. Imprecazioni per una gomma bucata: si perdeva un’ora di lavoro.
DAI! DAII!! DAIII!!!
LARGO| LARGOO!! LARGOOO!!!
Incuranti del traffico frenetico, borsa ben salda, con pioggia neve e vento che strappava dalle mani l’ombrello. Né semafori, né sensi unici e salti sui marciapiedi. Non c’erano divieti: tutto era permesso purché si arrivasse in tempo per timbrare. Finita la giornata lavorativa si tornava a casa. Ore diciotto e trenta partenza del treno.
Già mezz’ora prima era pronto e quasi sempre al settimo binario. La locomotiva ansimava mentre i pendolari arrivavano alla spicciolata. Salivano le scale del sottopassaggio aiutandosi con il corrimano: sembravano scalatori in cordata che arrancavano faticosamente per raggiungere la vetta. Qualcuno si fermava e appoggiandosi su una banchina estraeva la bottiglia e si scolava con calma l’ultimo goccio rimastogli del pranzo.
I primi ad arrivare trovavano posti a sedere, gli altri purtroppo rimanevano in piedi.
Tre fischi poi il sibilo del vapore che usciva dalla caldaia: partiva. Alle fermate delle stazioni si assisteva allo stesso spettacolo del mattino però al contrario. Affannose discese con porte aperte e sbattute con violenza ancora prima che il treno fosse fermo. Pendolari che si scaraventavano fuori da entrambi i lati delle carrozze inseguiti dalle parolacce di chi rimaneva e che doveva per forza richiudere gli sportelli lasciati aperti. In certe stazioni il treno doveva caricare della merce e voleva dire perdita di tempo: pesanti e violente le proteste.
Nelle carrozze l’atmosfera era diversa da quella del mattino: non si dormiva ma si parlava, si discuteva e si facevano nuove amicizie. Il treno è stato inconsapevole collaboratore e muto testimone della nascita di simpatie e innamoramenti che spesso son finiti in viaggi di nozze. Arrivo alla stazione di casa: figli, fratelli e amici erano già pronti con biciclette in posizione di partenza. Breve rincorsa, salto sulla sella e via a pedalare. Con rinnovata energia si disputavano gare a chi arrivava prima in paese, mentre il passeggero sulla canna incitava.
Il pendolare era ritornato.
Verso la fine degli anni quaranta quattro pionieri veneti del vicentino furono i primi a scommettere sulla zona impiantando un’officina vicino alla stazione che la chiamarono “EL MAI”.
Vinsero la scommessa.
In pochi anni avvenne la trasformazione e diventò un’affermata industria. Assunsero molta manodopera di questo paese e di comuni limitrofi, di conseguenza il fenomeno del pendolarismo, a metà anni sessanta, si era molto dimensionato. Il treno continuava a partire alla stessa ora ma non c’era più ressa.
I fischi che la locomotiva diffondeva nell’aria sembravano lamenti: non aveva più la sua numerosa compagnia. Sono sicuro che quando il treno arrivava al passaggio a livello rallentasse nella speranza di vedere ancora qualcuno fare il balzo del disperato ritardatario.
Non vedendo nessuno girava i fanali ossi di rabbia verso quella fabbrica che gli aveva tolto buona parte della sua quotidiana compagnia. Ricacciato nel forno quel momento di commozione, riprendeva la sua innata dignità e sbuffando se ne andava lasciando una scia di fumo più nera del solito.
Mario Venturini

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