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The Possession

Nel progressivo ripiegamento su trame sempre più ripetitive e scontate, ecco l’ennesima pellicola che, al culmine della sapienza biblica, ci regala nuove perle di saggezza arrivando a suscitare quel classico interesse che non va aldilà dello stato epidermico.

Scontata nell’assunto, collezionando tutta una serie di luoghi comuni (a cominciare dal titolo “The Possession”, che ci rimanda all’ennesima situazione di spiritismo), trita ripetizione di situazioni fin troppo abusate, l’esile trama potrà essere presto dimenticata dallo spettatore.

Stephanie e Clyde, marito e moglie con alle spalle una fresca separazione, proseguono sulle rispettive strade: la prima accompagnata da un nuovo uomo; il secondo buttandosi a capofitto nel suo ruolo di allenatore di basket. L’ex nucleo familiare si completa con le due figlie: Emily, la più giovane, esuberante e disinvolta e Hannah, l’adolescente più introversa. Vivono assieme alla madre ma, nei weekend, il padre Clyde passa a prenderle per passare un paio di giorni assieme a loro nella nuova casa fresca di acquisto. Durante un giro in macchina con le due figliole, i tre passano davanti ad una casa del loro quartiere nel cui cortile si sta svolgendo un mercatino dell’usato. Decidono così di fermarsi per qualche acquisto. Emily viene subito attratta da una singolare scatola di legno; un bauletto antico sul quale sono incise alcune strane iscrizioni. Molto affascinata e sedotta da quel cofanetto, la piccola costringe il padre a comprarglielo. Una volta portata a casa, la personalità della ragazzina comincia a subire radicali mutamenti. L’assillo maniacale per quell’involucro, che nessuno ha il permesso di toccare, si accompagna a comportamenti veementi e insoliti(aggredisce con violenza il padre) e a fatti inesplicabili (un’invasione di falene in casa). Vista l’indifferenza e il disinteresse della madre, Clyde decide di rivolgersi ad un esperto nella traduzioni di quei geroglifici presenti sulla scatola, il quale, a sua volta, lo dirotta presso un rabbino di una comunità ebrea. Solo così scoprirà che il contenitore è circondato da una antica leggenda. Racchiude un dibbuk: uno spirito malvagio, tipico della tradizione ebraica, rinchiuso da un’eternità e alla ricerca di un essere umano di cui impossessarsi. Nonostante lo zampino, in veste di produttore, del mago dell’horror Sam Raimi (“La casa”, “L’armata delle tenebre”, “Darkman”), responsabile dello stridente esito è un tal Ole Bornedal (il regista di “Nightwatch” e “Il guardiano di notte”) che, con l’ennesima vicenda ispirata a fatti realmente accaduti ad una famiglia nell’arco di 29 giorni, confeziona il tipico horror riconducibile alla corrente esorcistica. Unica particolarità (che novità…) il calarla in un contesto di religione ebraica con tanto di rituale finale (che non va al di là dei 2 minuti). L’indolenza con cui il tutto si trascina raggiunge poi l’apice in un paio di scene che riescono addirittura a regalarci un po’ di euforia (“Tesoro, ti senti bene?”, rivolto alla piccola Emily, di bianco vestita, capelli lunghi che le cadono sul viso, sguardo cadaverico ed in evidente stato di possessione diabolica; per non parlare dell’esito della risonanza magnetica che evidenzia sui monitor dei medici il riso sarcastico del demone). Soprassediamo, invece, sull’ovvietà dell’ultima scena. Se Bornedal non intendeva terrorizzarci con il suo film, cosa pensava di fare? Forse darci qualche lezione di morale sulla disgregazione contemporanea del nucleo familiare o sull’esistenza del maligno. Se, invece, qualcuno non vuole prediche ma cerca solo brividi… può sempre ricorrere al capostipite del genere: l’intramontabile “L’esorcista” del 1973. Ma lì si tratta di William Friedkin.  

Piergiorgio Ravasio

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