Qualche tempo fa mi sono imbattuta in una serie di fotografie di oggetti. Si trattava di oggetti comuni, di uso quotidiano, né belli né preziosi né necessariamente utili. Purtroppo, travolta da non ricordo quale stupida, contingente urgenza, li ho osservati frettolosamente senza soffermarmi sul loro significato e sul loro valore simbolico. Ho colto distrattamente solo il filo rosso che li legava l’uno all’altro e sono passata oltre.
I giorni e le settimane successive mi sono sorpresa spesso a ripensare a quegli oggetti, al loro potere evocativo e al senso vitale di cose talvolta apparentemente insensate. Quelle fotografie rappresentavano momenti di rottura e di svolta nella vita di alcune persone. Quegli oggetti erano stati il catalizzatore di una presa di coscienza, il motore del cambiamento, la spinta per chiudere il vecchio e inaugurare il nuovo. Un pettine, un libro, un cucchiaio, una coperta, una cartelletta zeppa di documenti possono avere un ruolo nel cambiamento e assumere un’importanza decisiva e dirompente nella nostra storia.
Tuttavia, gran parte della loro esistenza, i nostri oggetti – cari, insulsi, significativi o irrilevanti – sono soprattutto il solco dentro il quale camminiamo, il rassicurante motivo conduttore dei nostri giorni, la bussola che ci tiene in piedi e ci dice che siamo a casa. E forse, come possono scatenare e testimoniare cambiamenti, gli oggetti possono anche rappresentarci e parlare di noi, inequivocabilmente inanimati e prepotentemente espressivi. Così ho spostato i miei pensieri ossessivi (non posso farci niente: quando un’idea mi entra nella testa perdo l’equilibrio e tendo alla maniacalità) dalla rottura alla persistenza, dagli oggetti che raccontano una svolta a quelli che invece dicono che siamo. E ho provato a fare un gioco, associando ad ogni persona a me vicina un oggetto che le somigli, che la accompagni e che la evochi. Se sapessi disegnare o fare fotografie, esprimerei la continuità tra noi e i nostri oggetti attraverso le immagini che, in alcuni casi, sono portentose per efficacia e immediatezza. Mi tocca invece ricorrere alle parole per tessere quel filo invisibile che ci lega, e talvolta ci inchioda, ai punti fermi intorno a noi.
Una sigaretta finita, di plastica, color panna, lasciata ovunque, persa e ritrovata decine di volte al giorno, cercata spasmodicamente frugando in una marsupio Eastpak color grigio. Lei è Emanuele che 5 anni fa, forse anche un po’ per amore della sua bambina e della sua salute, smise improvvisamente di fumare. Da quaranta sigarette al di a una pallida imitazione in plastica, ribattezzata da lui “pipetto”, dall’oggi al domani, con quella pervicace determinazione con cui ha affrontato e affronta la vita intera.
Un anello eccentrico, grosso e d’argento, su dita lunghe e sottili di mani che ho sempre ammirato e anche un po’ invidiato per il loro talento nel fare le cose, disegnandole e plasmandole, per la loro
forza elegante e la loro grazia creativa. Quell’anello appartiene al mio papà, che ho preso in mano la prima volta quando ero bambina e che guardo ancora oggi che di anni ne ho ventotto.
Un paio di occhiali tondi, enormi, che coprivano tutta la faccia e magnificavano lo sguardo stralunato e pazzo di quella che sarebbe diventata la mia professoressa di italiano delle superiori, oltre che un’amica con cui confidarsi, ogni tanto. Quando la vidi per la prima volta, pensai che quegli occhiali fossero inguardabili e che farmi simpatica una professoressa così dovesse per forza essere un investimento a lunghissimo termine. Oggi, lo stesso sguardo stralunato e pazzo spunta dai medesimi occhiali tondi, ormai privi di lenti: è quello di suo figlio che gioca a Harry Potter. Non so quale sia il mio oggetto. Vorrei che fosse la penna blu che uso per scrivere perchè le parole nella vita hanno sempre un loro perchè. Oppure una camicia che non uso da 10 anni.
Spero non sia lo smartphone, perchè mi metterebbe una gran tristezza.
Ma non siamo noi a sceglierli. Sono gli oggetti che ci si appiccicano addosso e ci rimangono attaccati nello sguardo degli altri, come dentro una fotografia.
Tienimi il posto.
Si intitola così il nuovo disco
della mia cantante e poetessa
e amica italiana preferita, Erica Mou.
Ascoltatelo.
Per sopportare gli strappi
e ricominciare.
J.
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