Un’infanzia contesa più come una cosa che come un bene. Una legge fredda scolpita sulla pietra. Che non ammette ragioni. Non ascolta né grida né pianti, né vita né respiro. Un ordine del giudice da eseguire e basta. A tutti i costi. Anche a costo di un pianto strozzato e di una vita indelebilmente segnata da una classe che si svuota all’improvviso e da adulti che ti rincorrono “in nome della legge”. Ti rincorrono e ti sollevano di peso in nome del tuo bene. Ti rincorrono, ti sollevano di peso in nome del tuo bene. Ti rincorrono, ti sollevano di peso e ti strattonano come se fossi merce. Come se l’affetto per un genitore si potesse guadagnare di peso. A peso. Merce, appunto. Pesata dalla bilancia della “giustizia” invece che con quella del venditore. Ma pur sempre bilancia e pur sempre merce. Dietro i cancelli della scuola di Cittadella è stata rinchiusa a doppia mandata una verità profonda che la società vorace del consumo d’ogni cosa sembra aver dimenticato, sepolto, allontanato per sempre: volere il bene di quel bambino è più importante del voler bene a quel bambino. E’ l’antica lezione biblica impartita con il racconto che termina nel giudizio saggio del Re Salomone di fronte alla madre che sceglie ciò che è bene per il bambino. Ma oggi siamo diventati tanto voraci da far pagare le contese degli adulti alla vita dei bambini. Deboli che come sempre pagano per tutti. E siccome la loro voce e la loro forza non prevale, dovrebbe essere la legge a garantirli, proteggerli, lasciarne intatto l’incanto. M’è capitato un giorno d’incontrare la madre del racconto di Salomone. Ma l’epilogo era stato peggiore di quello paventato e temuto. Tragico. Il padre che aveva acquisito il diritto a vedere Federico, otto anni, in uno spazio protetto dall’Asl di San Donato Milanese, un giorno si presentò all’incontro con un coltello infliggendo otto colpi al bambino e uccidendolo prima di togliersi la vita a sua volta. Le lacrime di Antonella, questo è il nome della mamma, non ebbero bisogno di parole per dirmi l’anima straziata per sempre dall’amore malato di un padre malato. Un amore che pretende di prendere e non di donare. Un padre che aveva scelto di non avere più suo figlio né per sé ne per nessun altro. Federico era un bambino pieno di vita e avrebbe voluto chiedere al giudice di non vedere più suo padre. Il giudice aveva ritenuto che fosse manipolato dalla madre e aveva optato per un incontro settimanale “protetto”. Nel febbraio scorso gli operatori dell’Asl sono stati assolti con formula piena dall’accusa di “concorso per omissione in omicidio volontario”. Quello che ci manca davvero è la capacità di riuscire a guardare a queste storie con lo sguardo dei bambini. E anche noi riusciamo a raccontare ma non a comprendere. Forse è questo il senso di quel comandamento incompiuto: “se non ritornerete come bambini…” Ma noi abbiamo creato un mondo che esclude i bambini e i deboli. Abbiamo esiliato lo sguardo dei bambini sul mondo. La vicenda di Cittadella, come quella atroce di Federico ci dicono che non sono i bambini l’unità di misura delle nostre vite ma, ancora una volta, sono le cose che possediamo. I figli sono nostra proprietà. Quando ci sono, ci spettano. Lontano è l’eco dei versi del poeta libanese:
I vostri figli non sono vostri. Sono i figli e le figlie della fame che la vita ha di se stessa. Essi non vengono da voi, ma attraverso di voi, e non vi appartengono, benché viviate insieme. Potete amarli, ma non potete costringerli a pensare come voi, poiché essi hanno i loro pensieri. Potete custodire i loro corpi, ma non le loro anime, poiché abitano in dimore future, che neppure in sogno voi potete visitare. Proverete a imitarli, ma non cercate di renderli simili a voi. Voi siete gli archi da cui i figli, le vostre frecce vive, vengono scoccate lontano. In gioia siate tesi nelle mani dell’Arciere. (Kahil Gibran, il Profeta).
Antonio Dell’Olio – Fonte: “Rocca”