L’origine della parola “fotografo” è greca, photos significava luce e graphein scrivere, disegnare. Un fotografo è alla lettera qualcuno che disegna con la luce, un uomo che scrive e ridisegna il mondo con luci e ombre. In pochi lo hanno saputo fare, lo sanno fare, come Sebastiao Salgado, tra i più grandi fotografi contemporanei che ho scoperto in un pigro sabato pomeriggio di maggio attraverso lo splendido docu-film “The Salt Of The Earth” (Il sale della terra), di Wim Wenders e Juliano Ribeiro Salgado, primogenito del fotografo. Per chi non lo conoscesse e non lo avesse visto, il docu-film è la voce di Salgado stesso che racconta i suoi viaggi e la storia dei suoi scatti più importanti, nutrendosi dell’elemento primario quale è l’immagine. “Il sale della terra” per Salgado sono gli esseri umani, seguiti dal fotografo nei suoi quarant’anni di carriera. Dalla Sierra Pelada, miniera d’oro brasiliana dove Salgado riesce a percepire il mormorio dell’oro nell’animo dei cercatori, schiavi del desiderio di arricchirsi, passando attraverso il popolo Taumara nel Messico del Nord, viaggiando per il Brasile tra gli anni 1981 e 1983, in Jugoslavia durante la guerra civile e i conflitti secessionisti, in Congo e in Rwanda durante la repressione: l’occhio di Salgado ha saputo raccontare i continenti sulle tracce di un’umanità in pieno cambiamento. Il tutto immortalato nel bianco e nero inconfondibile, di rara potenza evocativa. Da “Other Americas” (progetto sulle terre sudamericane) a “Sahel”, “The End Of The Road”, da “Workers” a “Exodus”, questo docu-film uscito nel 2014 tenta di riscrivere, attraverso una nuova luce, l’interminabile cammino di Salgado, la sua completa adesione all’istante che ha saputo fermare rendendolo unico, consegnando alla storia le tante, troppe, innumerevoli storie della follia umana contemporanea. Con il genocidio in Rwanda e quello più recente dei Balcani, Salgado ha rischiato di “catturare” questioni che hanno rischiato di allontanarlo definitivamente dal suo soggetto principale: l’uomo, con il quale lo stesso fotografo ha finito per non riconoscersi più. Dopo il viaggio in Congo e Rwanda (tra il 1994 e il 1997), Salgado ebbe a dire: “Non credevo più a niente dopo questo viaggio”. Solamente più tardi, realizzando il monumentale “Genesi”, incontro ravvicinato con la fauna e la flora selvagge, omaggio unico e irripetibile alla bellezza del pianeta che abitiamo, unitamente al grandioso progetto portato avanti insieme alla moglie e al figlio primogenito atto al rimboschimento di quello che un tempo era (solo) la loro tenuta in Brasile (e adesso è un parco nazionale), Salgado -secondo lo stesso Wenders- ha avuto una sorta di risarcimento dopo tutta la disperazione di cui è stato testimone: “Non ha soltanto consacrato Genesis alla natura”, afferma il regista, “ma è proprio la natura ad avergli permesso di non perdere la sua fede nell’uomo”. Dopo la visione de “Il sale della terra”, volevo saperne di più sulla vita e le opere di questo immenso e sensibile fotografo. E così ho scoperto che fino al 26 giugno 2016, “Genesi” era in mostra a Palazzo Ducale a Genova. E ci sono andata. “Genesi” è l’ultimo grande lavoro di Sebastiao Salgado, un viaggio fotografico nei cinque continenti per documentare con fotografie in bianco e nero la bellezza del nostro pianeta. La terra come risorsa magnifica da contemplare, conoscere, amare. Dalle foreste tropicali dell’Amazzonia, del Congo, dell’Indonesia e della Nuova Guinea ai ghiacciai dell’Antartide, dalla taiga dell’Alaska ai deserti dell’America e dell’Africa fino ad arrivare alle montagne dell’America, del Cile e della Siberia. Personalmente, ogni volta che osservo le fotografie di Salgado, rimango folgorata dalla potenza delle immagini, dalla sua bravura come fotografo ma soprattutto dalla sua sensibilità. E spesso arrivano a farmi compagnia la rabbia, la tristezza, il senso di inutilità ma credo che con “Genesi” Salgado sia riuscito a scrivere una lettera d’amore alla Madre Terra. Attraverso la sua macchina fotografica, interessandosi delle emozioni e del piacere di un viaggio durato otto anni attraverso luoghi bellissimi ed isolati e fotografando la bellezza della natura, Salgado ci rende consapevoli del fatto che anche noi facciamo parte di un universo affascinante. L’estetica delle fotografie di Salgado è la sua forma di scrittura, il suo stile. Con “Genesi” cambiano i soggetti ma non il suo linguaggio fotografico, che nasce sempre da una forma di partecipazione spirituale. Una foto, prima di essere uno sguardo critico, è la capacità di materializzare questa partecipazione in un’immagine e solo dopo diventa anche forma di comunicazione che si rivolge ad altri. Ma le fotografie di Salgado non nascono dal desiderio di comunicazione quanto dall’istinto. Nelle sue foto c’è tutta la sua vita, le sue idee, la sua etica ed oltretutto sono foto sempre inscritte all’interno di una storia, a cui Salgado partecipa direttamente e in ogni suo scatto si percepisce questa partecipazione. Visitando la mostra a Palazzo Ducale, credo anche di aver intuito perché Salgado non utilizzi i colori nelle sue foto ma solo il bianco e il nero: nella fotografia a colori c’è tutto. C’è il rischio che i colori prendano il sopravvento sui soggetti che vuole mostrare, sulla dignità delle persone, sui sentimenti, sulla storia. Forse la bellezza dei colori rischierebbe di cancellare tutto il resto. Una foto in bianco e nero invece è come un’illustrazione parziale della realtà. Chi la guarda, deve ricostruirla attraverso la propria memoria che è a colori, assimilandola a poco a poco. C’è quindi un’interazione molto forte tra l’immagine in bianco e nero e chi la guarda e credo che possa essere interiorizzata molto di più di una foto a colori. Il bianco e nero di Salgado è un grande incanto, che trasmette continuità e partecipazione. Per fotografare gli uomini occorre rispettarli e comprenderli, per la natura credo valga lo stesso metodo. Forse perché durante tutti questi anni, il vero viaggio di Salgado è stato dentro se stesso. “…Per conoscere l’altro da sé occorre conoscere se stessi. Il vero viaggio mi è servito a questo”. Parola di Salgado. Che vale per un sacco di altre cose. J. Le nostre valigie erano di nuovo ammucchiate sul marciapiede, avevamo molta strada da fare. Ma non importava, la strada è la vita. -Jack Kerouac- Potete seguirmi su Facebook sul mio profilo privato La Ju Franchina, sulla mia pagina artista La Ju o leggere tutti i miei articoli sul mio blog a questo indirizzo: alegraaa.blogspot.it