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QUESTA È LA STORIA…

È evidente che il Direttore di questo benemerito giornalino (piccolo nella forma, grande nei contenuti), sia “innamorato” ormai da tempo di Adriano Celentano. Per sua stessa ammissione questo singolare, celeberrimo cantante ha fatto un po’ da guida nello scorrere del suo cammino, una sorta di Stella Polare a cui ispirarsi nei momenti bui della vita. Io non ho mai avuto il piacere di incontrare personalmente Celentano, ma posso affermare con matematica certezza di aver iniziato ad apprezzare le canzoni di questo inimitabile artista, molto ma molto tempo prima del Direttore di questo quindicinale.

Dipano il racconto iniziando col dire che sono nato, ormai, tanto tempo fa (anno 63’, per essere precisi) in una cascina molto vecchia la cui area antistante era tutta racchiusa da portici e stalle, tant’è che mi sembrava di vivere in un antico Maniero, protetto od isolato (dipende dai punti di vista) dal mondo circostante. Questo grande rettangolare podere, era diviso in due da un’alta rete arrugginita che separava a metà la nostra cascina da quella dei vicini. Il lato Est era da noi abitato (io, i miei genitori, fratelli e nonni paterni); lato Ovest vi erano due fratelli che abitavano con le loro famiglie in due diversi alloggi.
Quando in cascina arrivò l’elettricità, io avevo 5 anni (in paese era già da tempo che vi era giunta), il primo elettrodomestico che acquistammo fu il frigorifero assieme alla radio (mio papà cominciò così ad ascoltare i principali notiziari, essere informato su quanto avveniva nel mondo per lui è sempre stato di primaria importanza), invece i nostri vicini assieme al frigo acquistarono il giradischi.

Una mattina Oreste (il figlio dei nostri vicini, di 3 anni più grande di me) mi fa: – Nano (era il mio nomignolo), vuoi vedere una cosa straordinaria? Una valigia che canta! – io rimasi stupefatto; com’è possibile che una valigia canti ?
E allora incuriosito attraversai il buco che c’era nella rete divisoria (nostro varco nel “Muro di Berlino”) ed entrai in casa di Oreste; lui prese una valigia bianca, la aprì, mise sopra un disco nero e dal coperchio (dove era sistemato l’altoparlante) uscì: – Questa è la storia di uno di noi, anche lui nato per caso… – Rimasi incantato sia dalla musica ma soprattutto dalle parole di questa canzone, e volli ascoltarla ancora e ancora…

Alla decima volta, cominciai a piangere e singhiozzare, Maria (la sorella di Oreste, una ragazzina di 11 anni, bellissima, aveva capelli neri lunghissimi e dei lineamenti sottili da farmela equiparare al viso della Madonna), mi chiese il perché delle mie lacrime: – Sono io quel ragazzo, mi portano all’asilo in città contro la mia volontà ed io soffro pensando sempre a quando tornerò a casa e ancora correrò per i prati – Giordano, mi fai morire – e così dicendo strinse il mio viso contro il suo.
Da quel giorno e per due anni a venire, ogni mattina prima di partire per il centro urbano ove era situato l’asilo, attraversavo il foro della rete ed entravo in casa di Oreste per ascoltare almeno cinque volte consecutive: “Il Ragazzo della via Gluck”; poi mia mamma (dopo avermi fortemente richiamato) mi metteva seduto sul manubrio della bici, appogiavo i piedi sul poggiolo che mio padre aveva forgiato intagliando un bastone di legno e pregavo che la mia adorata genitrice non tirasse il freno di destra perché sul manubrio da quella parte, scorreva un uncino che tramite leve azionava le ganasce della ruota posteriore (Umberto Dei, aveva inventato questo sistema di frenatura, probabilmente non considerando che sul manubrio potesse poggiare il culetto di un bambino). Quando partivamo per l’asilo, io mi attaccavo alle braccia di mia mamma e cominciavo a cantare: Questa è la storia di uno di noi, anche lui nato per caso in via Gluck, in una casa, fuori città…
Quando il vento era a favore, sentivamo l’ululato del treno locale che lambisce Asola: Wau Wau, come se anche lui volesse essere partecipe della canzone, d’altronde nel testo viene citato.

L’11 Novembre 1970 (San Martino), all’epoca avevo 7 anni, mentre i miei genitori stavano sistemando i materassi sul carro (destinazione cascina Maestà, questo era l’ultimo giorno di permanenza nel mio amato natio casolare), sono passato per l’ultima volta attraverso il varco dell’arrugginita rete, ho aperto la porta di Oreste; appena Maria mi ha visto, senza chiedermi nulla, ha aperto la valigia “Geloso” (ricordo ancora perfettamente la marca della miracolosa fonovaligia), ha messo il disco di Celentano sul piatto e lì mi sono ubriacato di quella canzone che per oltre due anni, ogni giorno ho ascoltato e assorbito nell’anima; finché l’improvvisa squillante voce di mia madre, m’avvisava che era giunto il tempo degli addii ed interruppe quella sorta di limbo in cui sempre mi isolavo al sentire quella melanconica ballata dal testo semplice ma intenso allo stesso tempo, che per me quel giorno assumeva un’importanza ancora più significativa. A malincuore, ho salutato Oreste e Maria spargendo lacrime come un innaffiatoio, e loro dopo l’ultimo abbraccio: “ciaooo Celentanooo ciaooo” – sì perché questo è il nome che mi attribuirono da quel giorno fino ai tempi nostri.

Non ho più avuto modo di ascoltare la “valigia magica” dei miei vicini, ma “Il Ragazzo della via Gluck”, quella almeno una volta alla settimana la devo sentire perché è come innaffiare il giardino dei ricordi, e così premo un tasto sullo smartphone (questi marchingegni che stanno rimbambendo un po’ tutti quanti, almeno qualcosa di buono ce l’hanno) ed ecco che ripercorro all’indietro la strada della mia vita, mi fa tornare nel cortile della cascina natia, popolato di bestiole d’ogni tipo, quando in estate andavo in giro sempre scalzo ed i miei piedi diventavano talmente resistenti da diventare simili al cuoio. Potevo camminare sui sassi senza sentir alcun male, eppure quando attraversavo un prato riuscivo a percepire il solletichio dell’erba, una poetica sensazione indescrivibile a parole.

Quanti emozionanti ricordi si risvegliano ascoltando la canzone di Adriano Celentano, uno straordinario artista che per primo in assoluto (almeno in Italia) con “Il Ragazzo della via Gluck”, ha voluto coraggiosamente affrontare le tematiche ambientali, sapendo ancora prima che partecipando a Sanremo, sarebbe stato subito eliminato. Il brano a quel tempo era troppo avveniristico, ma a lui non sono mai interessati i facili guadagni, perché ha sempre anteposto a tutto, la libertà di pensiero e d’espressione. Come si suol dire “il tempo è galantuomo” e la gente ha compreso ed in tanti condiviso il Credo di Adriano, fondato principalmente sul rispetto di Madre terra; forse se avessimo posto più attenzione al brano di Celentano (uscito nel 1966), oggigiorno non ci troveremmo ad affrontare quei gravi cambiamenti climatici che stanno stravolgendo il pianeta. L’ultima volta che ho incontrato Oreste (il mio vicino di cortile di quando eravamo bambini), m’ha salutato dicendomi: “Ciao Celentano, tutto ok ?” Ed io, mi sono sentito orgoglioso.
Giordano

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