Oggi parlerò di una vettura che anticipò le mode e i tempi di circa vent’anni e forse più.
La Matra Rancho, fu di fatto il primo SUV o city crossover della storia dell’auto. anticipando così le tendenze che circa vent’anni dopo avrebbero spopolato sui listini delle case automobilistiche. Lanciata nel 1977 è rimasta in produzione fino al 1984 in circa 57.000 esemplari, divisi in cinque versioni che differivano leggermente nell’estetica ma identiche meccanicamente parlando.
La trazione era solo anteriore, il cambio era a quattro marce ed il motore era un quattro cilindri in linea, derivato dalla collaudata serie Y2 da 1,4 litri di cilindrata. La potenza di circa 80 CV garantiva prestazioni discrete, comunque sufficienti data la natura dell’auto.
Ad essere rivoluzionario era l’aspetto conferitole; vista dall’esterno sembrava un fuori strada duro e puro pronto a sfidare terreni impervi.
La realtà era ben distante dall’immagine.
La versione ‘Grand Raid’ è sicuramente la più ambita e preziosa, dotata di fari supplementari, verricello anteriore e ruota di scorta posizionata sul tetto. La scelta della casa francese fu davvero ardita per i tempi, figlia di una intuizione commerciale davvero notevole e avanguardista per gli anni 70. Nonostante fosse un po’ presto per parlare di suv perlomeno a livello concettuale la Rancho piaceva e vendeva.
La grande semplicità costruttiva la rendeva solida ed economica nei costi di gestione garantendo comunque un aspetto fortemente innovatore e fuori dalle righe.
La macchina aveva ampie superfici vetrate che regalavano grande luminosità agli interni, una tre porte con spazio davvero abbondante internamente sia per le persone che per stivare bagagli. Un mezzo ottimo ed adattissimo per le famiglie o per piccoli imprenditori dato l’ampio vano di carico ed il tetto molto alto, posto su due livelli.
Oltre alle barre porta tutto fisse al tetto, la Rancho era una tutto fare dall’aspetto sfizioso e modaiolo. Condivideva molte parti con i modelli Simca, come ad esempio i proiettori anteriori.
Fu fatto un largo uso di plastiche e anche qui la Rancho anticipò i tempi. Va segnalata la presenza di un piccolo bull bar incastonato nella calandra anteriore. Fu anche usata in tutti e due i film che lanciarono una giovanissima ed allora ancora sconosciuta Sophie Marceau, “Il tempo delle mele” e relativo secondo capitolo, dal papà di Vic, il Signor Berreton, interpretato da Claude Brasseur. L’auto appare in alcuni frame lasciando intendere che era la vettura della famiglia.
Da piccolo trascorrevo spesso le vacanze estive in Liguria e mi ricordo di averne incrociate diverse, ancora usate, come auto di tutti i giorni: siamo nei primissimi anni 90.
Ad oggi è molto raro incrociarne per le strade.
Nonostante i numeri di produzione non siano bassi, spesso la sua indole da auto tutto fare ha portato i proprietari ad usarle per svariati utilizzi, auto da lavoro, fuori strada leggero etc fino a sfinirle e doverle poi rottamare.
Incontrarla oggi cattura lo sguardo così come all’epoca del lancio, si vede che era ed è un qualcosa di diverso dal solito.
Come tutte le auto è figlia sia stilisticamente che tecnologicamente dei suoi anni, del suo tempo.
Una Rancho è un tuffo nei primi anni 80’ senza se e senza ma, nel periodo in cui le radio erano solo a cassette, i volanti non avevano air bag e i navigatori erano gli atlanti stradali che stavano solitamente nel cassetto porta oggetti o incastrati nella portiera del conducente.
Le auto che finiscono per intersecare la loro storia con il cinema a me affascinano molto, non stiamo parlando di un film premio Oscar, ne sono conscio. Rimane però un modello usato in una delle pellicole francesi più celebri del decennio: riscosse enorme successo anche a livello europeo. A rivederlo oggi è un film che seppur nella sua leggerezza, inquadra bene il periodo storico a cavallo fra la fine degli anni 70 e i primi anni 80. In quanto alla Rancho, mi è sempre piaciuta: è un’auto dalla forte personalità, non facile da vedere e questo basta a farmi pensare che abbia già un futuro collezionistico davanti a se.
Antonio Gelmini
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