Quanto tempo è passato da quando ti abbiamo visto la prima volta in comunità a faticare, camminare, faticare, e ancora camminare, fino a diventare maratoneta di un percorso di vita vero, con i piedi ben piantati al suolo, ritornando a vivere le tue emozioni, i carichi distribuiti a misura, i pezzi di futuro rimessi insieme. Tanti anni a fare sudore, a espellere tossine, a buttare fuori il malessere, il disagio sopportato sottocarico, l’amore scambiato per qualche soldo di fiducia tradita.
Mario era un ragazzo come tanti altri, con una famiglia, moglie e figli, un lavoro, tutto sembra filare al dritto in poppa, finchè un giorno arriva a bussare alla porta il bastardo inaspettato, l’amico che ti propone lo sballo, tanto per fare qualcosa di diverso: appare inspiegabile la sua impreparazione, la sua inadeguatezza, la sua resa fatta di fragilità.
Il rapporto con la famiglia s’incrina, il lavoro se ne va da un’altra parte, non c’è alternativa se non il buio che illusoriamente protegge nella strada, la panchina, i luoghi della solitudine, al profumo dell’amore si oppone l’odore acre della lontananza.
I piedi feriti, il corpo indolenzito, il male dentro fin sopra le scapole, giù fino al cuore, un dolore intenso mitigato dalla droga, dall’alcol, un poliabuso sconsiderato a nascondere nella dipendenza il vero problema della testa, della pancia, dell’anima.
Mario e la presunzione che non gli consente di chiedere aiuto, scivola sulla vita che perde senso in ogni giorno da cavalcare, è disarcionato, a terra, solo, senza più se stesso.La grande città lo espelle, lo getta fuori senza tanti complimenti, lo scarica indietro tra i detriti che non servono più a nulla. Allora Mario si trascina fino a una piccola città, tenta disperatamente di rimettersi in piedi, poggia un passo avanti all’altro, tenta di vedere cosa fare, non solamente come meno subire.
Sniffare e bere diventa un castigo ben peggiore delle difficoltà di ritornare a rispettare la vita, percepisce la necessità e l’urgenza di non mollare gli ormeggi, finalmente alza una mano, la voce taglia a metà la paura, non indietreggia più, avanza con lo sguardo in alto, lasciandosi alle spalle la pazienza della disperazione. Rammento i primi giorni di accoglienza nella Comunità Casa del Giovane, il suo impegno costante, la sua scelta di non rifiutare la fatica, il bisogno di ritrovare un equilibrio, la ricerca di uno stile di vita diverso e più consono alla cura di se stesso, dentro una solidarietà non di facciata, ma consapevole del valore della reciprocità: noi ci siamo se anche tu ci sei. Mario ce l’aveva fatta, non aveva più bisogno della bugia più grande per stare bene, cocaina e alcol non avevano più possibilità di fregarlo, di affascinarlo, di metterlo un’altra volta ko. Si era riavvicinato alla figlia, aveva trovato un lavoro decoroso, preso in affitto una piccola casetta, ripreso in mano le redini di una serenità non più maltrattata.
Mario si ammala, è in rianimazione, per giorni sta immobile su quel lettino, ma poi seppure a tentoni la fa franca all’incedere insolente della malattia. Riuscimmo a riportarlo a casa, sapeva del tumore al fegato, delle placche estese alla spina dorsale, ma per qualche momento ancora è stato un uomo libero.
Cosa ci lascia in eredità Mario? Sicuramente tante cose, ma un paio sono da tenere a mente, costi quel che costi. La prima è che ogni uomo domiciliato nell’errore, se fa ricorso a tutte le proprie energie interiori, ce la può fare a rialzarsi.
La seconda è che fare uso e abuso di sostanze rendono la vita un calvario, annientano e distruggono ciò che resta, e anche quando la dipendenza è combattuta e vinta con coerenza, spesso restano le ferite, gli scavi, il male inarrestabile sotto il primo strato che non fa sconti a nessuno.
V A