In un autoritratto in versi, il «tranviere metafisico» Luciano Erba, a suggello dell’omonimo e azzurro volumetto all’insegna del Pesce d’Oro, si definisce «uomo vecchio in città / disperso su tronchi secondari di ferrovia / o con un piatto di lesso / davanti a tetti umidi di pioggia». A lui, «con gli occhi oggi ancora sprovveduti / di quando in ritardo andava a scuola», giunto al traguardo degli ottant’anni, abbiamo chiesto una piccola antologia d’autore, ovvero la scelta di alcune delle sue poesie predilette; però manoscritte, perché i lettori antichi e nuovi possano scoprire, anche nella sua calligrafia, uno di quei segni che tanto lo attraggono e inquietano nel mondo. Per questo poeta in itinere il mondo è «soltanto un segno […] / creato dai miei occhi», lo specchio interiore per chi, come Erba, è spettatore incuriosito di «eventi privi d’ombra e di riflesso / soltanto un segno che segna se stesso». Sono state riaperte per la prima volta pagine di un quaderno giovanile ritrovato, in cui già tra l’estate del 1941 e l’inverno del 1942 il ventenne Luciano rincorre tra le case di Milano «rotaie […] vuote di ruote» sulla «via che porta alle ortaglie» nell’orizzonte lombardo dal colore prediletto, il verde…
La sua poesia è il diario di viaggio di un disincantato e sensibilissimo uomo in ricerca entro territori marginali «senza traccia di tappa / di sosta, di partenza, di arrivo», un itinerario nei sentimenti e nelle inquietudini di un pellegrino al tramonto di un millennio in bilico tra fede e negazione, che alla fine deve registrare: «oggi sono tornato / sono tornato troppo lontano».
Un particolare quotidiano e apparentemente insignificante è sufficiente a suscitare una metafora sulla vita, a dimostrare che gli oggetti umili sono i segni del mondo più sicuri ai quali si possa aggrappare il bisogno umano di certezze; si ricordino i cappelli e i treni e basta la visione di una donna («scoglio o continente»?) col «sari di un verde più acceso / dell’erba dei campi e delle risaie» perché il poeta si fermi a riflettere. I colori sono anch’essi segni rivelatori – dal giallo degli ireos alle tinte degli accappatoi che asciugano al vento – e i vestiti coprono e nascondono: i corpi, i sentimenti, i costumi e i contratti sociali da cui Erba vorrebbe difendersi. I dettagli di Erba sono anche «uno stento girasole selvatico» o la colla per tenere insieme un vecchio libro o ancora un «moscerino che si agitava nel mio bicchiere»: non sono particolari idillici, casomai frammenti di un idillio perduto o impossibile, cocci che restano sparsi negli «spazi intermedi», pezzettini di mondo e di umanità da comporre e da decifrare, tentando una replica «a mille altri richiami / a tante risposte senza domanda». Gli interrogativi finali, elemento distintivo dei testi di questo poeta dell’ironia col sorriso amaro sulle labbra, segnalano la stessa ansia di comprendere la vita (per tornare al suo autoritratto: «Interroghi l’alfabeto delle cose / ma al tuo non capire niente di ogni sera / sai la risposta di un mazzo di rose?») e svelano una carica di religiosità che si potrebbe definire laicizzata fino all’appiattimento, proprio per un bisogno etico e condivisibile di capire meglio che cosa davvero resti nelle cose. Confessa in uno dei testi inediti del 2002: «vedi i miei versi: rincorrono le cose / ma alla fine incontrano se stessi». In quella terra di nessuno e in quel passaggio delle stagioni sta la metafora dell’esistenza che non si può cogliere nella sua totalità e centralità; soltanto nelle piccole cose marginali, semi e promesse di trascendenza. E in attesa che il cielo si oscuri, il tranviere Erba – dubitando che «il binario da prendere era un altro» – riformula una domanda antica: «ed io, io, ospite di quale sera?»
Roberto Cicala
(da Luciano Erba, Si passano le stagioni. Una scelta personale di autografi e inediti, Interlinea, Novara 2002, pp. pp. 5-8)