Laura Antonelli viveva da tempo solo nella nostra e nella sua immaginazione.
Per Luchino Visconti era “la donna più bella dell’Universo”. Per Jean-Paul Belmondo, “la più amata”. Per Ursula Andress, “la rivale”. Per i critici “un volto d’angelo su un corpo da peccatrice”. Laura Antonelli è stata l’ultimissima Diva. Un giorno di quarant’anni fa in vestaglia e reggicalze, illuminata dalla luce di Storaro, salì le scale nel tinello di Malizia ed entrò nella storia del Cinema italiano.
Le cronache dicono che il cuore di Laura Antonelli si è rotto, questa volta per sempre, nella sua casa di Ladispoli, dove viveva in una bolla di aria, tempo e sofferenza. Aveva 73 anni. Ma, a mio avviso, stona il coro unanime che continua a descriverla pietosamente irriconoscibile. In realtà è morta molti anni fa, come talvolta accade alle creature più fragili che il cinema illumina e poi brucia, prigioniera dei suoi molti fantasmi, di amori sempre sbagliati, di una brutta storia di carcere e cocaina, e poi di un lifting che oltraggiò per sempre la sua bellezza e che lei ha vissuto e accettato negli anni bui come una punizione del cielo.
Seminati i veleni del silicone che le avevano sfregiato la faccia, Laura Antonelli pareva essersi ripresa addosso la nostalgia della bellezza che l’ha fatta una stella. Appesantita dall’età e dalla solitudine, certo, ma in quella foto accanto a casa, vestita di azzurro, Laura aveva intorno l’aura dell’Antonelli come per un riscatto della fine. I capelli lunghi al vento, la linea carnivora della bocca che aveva fatto perdere il controllo fisico ai maschi di ogni razza. E non solo perché era diventata l’icona dell’eros casalingo, ma perché lei il talento della seduzione ce l’aveva sotto la pelle.
Un giorno di tanti anni fa, il giornalista Pino Corrias la chiamò al telefono per chiederle di raccontare la sua storia. Gli disse: “Laura Antonelli non esiste più”. Lui ci andò lo stesso a Ladispoli. Vide la sua antica bellezza sparita dentro un corpo ingrassato fino a cento chili, deformato dagli psicofarmaci, dall’alcol, dalla solitudine. Solo gli occhi conservavano quell’azzurro che stregava il mondo, ma erano anche loro velati e perfettamente indifferenti. Occhi che nei lontani anni Settanta e Ottanta avevano brillato sui velluti del jet set, stregando tutti, dal vecchio Angelo Rizzoli a Dino Risi, da Alberto Sordi a Enrico Maria Salerno, lei regina di grandi ville sull’Appia, grandi barche a Saint-Tropez, grandi feste, grandi litigi da rotocalco, ma sempre con il Concorde sullo sfondo, i collier, le rose e le spider rosse.
Quella mattina stava andando a messa. Camminava lentissima e a piccoli passi, rasentando i muri. Indossava una tunica grigia, scarpe di gomma, il crocefisso al collo. Disse a Pino Corrias: “Non voglio parlare. Non voglio vedere. Non voglio ricordare. Uso il dolore come una spugna e un po´ alla volta cancello le persone che mi hanno fatto soffrire”. E le cancellava cancellandosi.
Per questo, nella sua ultima piccola casa, aveva strappato tutte le foto della persona che l’aveva fatta soffrire di più: le sue.
“Laura doveva sedurre anche il giornalaio”, disse a Pino Corrias un amico che l’aveva amata. Vero.
“Stregare gli uomini mi dava sicurezza. Nessuno mi ha mai convinta di essere davvero bella”, diceva lei. Così infatti la raccontano: donna sensuale, gatta erotica, ma fragile e ingenua. Come del resto ogni leggenda femminile della sensualità. Come Brigitte Bardot, la più bella di tutte, che il regista Roger Vadim descrive insicura e timida. Come Marilyn Monroe, stella delle stelle, che preferisce andarsene piuttosto che arrendersi alle rughe. E come Monroe, anche Laura ha bisogno di maschi potenti e famosi. Jean-Paul Belmondo se lo prende una sera in una discoteca. Lui è seduto con gli amici. Lei si avvicina e gli sussurra che ha voglia di fare l’amore con lui. Nasce la storia d’amore più fotografata degli anni ‘70.
Nel cinema aveva già un curriculum da diva. L’innocente di Visconti, Divina creatura di Giuseppe Patroni Griffi, Il merlo maschio con Lando Buzzanca. E poi Ettore Scola, Luigi Comencini e chiunque. Poi però Belmondo la lascia. Laura è, per un divo come lui, un insopportabile Otello in gonnella. Lei si dispera. Molto. Comincia a riempirsi di cocaina per uscire dalla verità del dolore. Quella medicina pericolosa le costa uno scandalo e la galera. E’ il principio della fine. Arrivano le ossessioni religiose e i ricoveri nelle cliniche psichiatriche. Laura ha un altro difetto: è troppo generosa. Tanto da farsi succhiare via soldi e gioielli da associazioni religiose, amici e nemici. Il cinema continua a proporle solo ruoli svestiti. Lei “li odia”. “Avere il tatuaggio della diva erotica addosso ha negato le mie qualità di brava attrice”, ha detto di se stessa.
Arriva il 2000 e i produttori di Malizia 2000 le propongono il bis. Disastro. Per affrontare i primi piani un chirurgo le inietta in faccia un farmaco che le procura un’allergia devastante. Il film è un flop. E’ il colpo di grazia. Cause e avvocati la fanno affondare dentro un tunnel di sconfitte e di solitudine. Vende le sue case di Cerveteri. E’ circondata da maghi e avvoltoi che approfittano della sua agonia.
Il vero amico Lino Banfi chiede per lei l’applicazione della legge Bacchelli, quel sostentamento che permette a vecchie glorie impoverite di sopravvivere. I soldi non arriveranno mai.
Finchè una mattina, Laura viene trovata nella sua camera da letto. Senza respiro.
Cara Laura, forse è vero: è tutta colpa dell’amore che riavvolgerà il destino, riscrivendoci il copione. Ma in ogni fotogramma resti sempre la più bella, lo diceva anche nonno Pino. Mentre scorrono veloci i titoli di coda vorrei dirti che non è ancora troppo tardi per riavere la tua vita e ora che sei libera e cammini lontano da qui e da noi, se puoi, salutami il mio nonno.
J.
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