Ho sempre saputo di essere sensibile.
Fin da quando ero piccola mi accorgevo che non percepivo le cose come gli altri bambini, ma le “sentivo” in maniera molto più intensa, più profonda, nella pancia. Avevo paura di mille cose, avevo paura della morte, dell’abbandono, l’ora di andare a letto mi terrorizzava e se non riuscivo a dormire pensavo di essere rimasta sola sulla Terra. Come il Piccolo Principe. Quando i miei andavano via e mi lasciavano dai nonni o dalle zie, piangevo come se mi stessero deportando.
“Sensibile come una corda di violino”, come mi disse la mia maestra di italiano alle elementari. Quindi una dannata. Ed ero l’unica della mia classe che si faceva certe domande e di sicuro non avevo la stessa leggerezza degli altri che vivevano con molta più serenità di me. Mi sentivo così diversa e così sbagliata. Le domeniche erano la cosa che odiavo di più. Lì scoprii che cosa era l’ansia. Quella sensazione strisciante e inspiegabile che c’è qualcosa che non va, ma non sai dire cosa. Quelle giornate infinite, con quella tensione palpabile che mi faceva preferire la settimana a scuola. Pomeriggi bui, silenziosi, passati in camera o con i figli degli amici dei miei con cui dovevo andare d’accordo per forza anche se non mi piacevano. Vivevo con questo stato costante di malessere a cui non sapevo dare una voce. Ecco, quegli anni là sono la mia idea di inferno. E infatti piangevo un sacco. Piangevo di dolore tutte le volte che moriva un animale in un cartone animato (tralascio la tragedia per la perdita della scimmietta di Remì e di Parruccone de La collina dei conigli, per non parlare della tragica dipartita di Lady Oscar!) e piangevo di paura quando percepivo il vuoto, la solitudine, quel senso di non avere il guscio, di non far parte di niente, di essere in transito, diversa da tutti. No, a dire la verità in quel caso non piangevo nemmeno. Ero terrorizzata e rimanevo impietrita e basta, senza le parole, senza la voce. Mi ricordo che tentavo di spiegarlo agli altri bambini, con il risultato che venivo isolata e presa in giro (oggi lo chiamano “bullizzare”, all’epoca era prenderti a spintoni nel corridoio o rubarti la merenda e non ci potevi fare niente sennò la volta dopo era anche peggio). Una bambina sensibile è una creatura delicata che mette in grossa difficoltà un genitore, perché fa domande strane, perché capisce i non detti, perché ha bisogno di molte rassicurazioni, perché necessita che le sue emozioni così intense vengano validate e accolte, che le sia spiegato con un abbraccio che va tutto bene. Ma erano gli anni ‘90, in pochi sapevano qualcosa, e anche per questo mi sentivo sempre ripetere che esageravo, che dovevo fare come gli altri, che facevo troppe scene, che dovevo smetterla di piangere. Così tutti i miei sentimenti, le sensazioni, le emozioni che sentivo, ho imparato in fretta ad ingoiarle, perché avevo chiarissima una cosa: che quello che provavo era sbagliato. E ignorare i segnali del tuo corpo è la ricetta migliore per farsi del male.
Significa andare nella vita giocando a mosca cieca. Significa navigare a vista, senza una bussola, senza un radar, affidandosi agli altri e andando a sbattere contro gli iceberg. Per anni mi sono dannata a cercare di capire cosa avessi di storto, perché la mia percezione della realtà fosse tripla rispetto a quella degli altri, perché ho sempre “sentito” le persone negative e false prima di tutti, perché una discussione mi gira nella testa anche una settimana, perché mi danno fastidio i rumori forti, la luce intensa, la gente che urla, perché certe immagini alla televisione mi tolgono il sonno, perché percepisco le ingiustizie in maniera assoluta, perché l’idea della morte degli altri mi è inaccettabile, perché mi viene il magone per niente, perché mi sembra di essere un palloncino in un mondo di spilli. Ed ecco che ti senti sola ed incompresa e pensi che forse è il caso di cominciare a prendere degli psicofarmaci, perché sai che tanto sarà sempre così, un otto volante di alti e bassi, spesso nella stessa giornata e solo per una parola che ti hanno detto.
Allora ho cominciato a studiare per capire se tutto questo avesse una matrice, per avere un’etichetta, una categoria, una diagnosi, un nome al mio disturbo, se sono borderline, bipolare, schizofrenica, paranoica, nevrotica o, semplicemente, pazza. E finalmente dopo lungo cercare l’ho trovato. Chiaro come il sole, quasi banale, lì sotto ai miei occhi da sempre. Sono “semplicemente” una persona “ipersensibile” o, all’inglese che fa più fico, una HSP (High Sensitive Person). E mi si è aperto un mondo. Io non sono solo sensibile (tutti, a parte gli psicopatici, sono sensibili in varie misure), io sono “ipersensibile”, cioè in una misura molto maggiore del normale, faccio parte di una minoranza (solo il 15-20%) di persone dette “a pelle sottile”, che sentono le cose in maniera molto più intensa e diretta e spesso insopportabile. Gli ipersensibili patiscono gli stimoli esterni come la luce, il fumo, i rumori, gli odori, in modo intensissimo, si stancano facilmente, sotto pressione danno il peggio di sé, si immedesimano nel prossimo fino a far proprio il dolore degli altri, si sentono spesso incompresi, hanno un’area creativa molto sviluppata, hanno bisogno di più tempo per elaborare le informazioni, cercano di evitare i conflitti a tutti i costi…e alla fine ho detto: Ma sono io!
Ecco perché se ripenso alla cagnolina Lacky che è morta nel ‘96 mi commuovo ancora, ecco perché dal 13 dicembre 2013 non posso più ascoltare quella che era la mia canzone assoluta (Good Riddance (The time of your life), Green Day), ecco perché quando passo in via XX Settembre e c’è il violinista che suona la colonna sonora di Nuovo Cinema Paradiso mi scendono le lacrime anche se un minuto prima ridevo. Perché le mie corde di violino si mettono a vibrare così intensamente
che rimango senza fiato. E succede così, senza preavviso.nEd ecco che oggi, a distanza di così tanti anni, mi sono riappacificata con quello che invece di un difetto ADESSO considero, con orgoglio, il mio Super potere.
E come tale cerco di usarlo al meglio perché possa far fiorire la mia vita e quella di coloro che mi
stanno intorno e lo salvaguardo volendomi ancora più bene, proteggendomi dai cattivi, dagli invidiosi, dai finti buoni e riappropriandomi delle mie sensazioni (giuste) che la mia pancia mi suggerisce in ogni momento. Già, perché ora so che se sento le cose in questo modo così estremo, è perché il mio corpo mi sta segnalando un pericolo o un’esigenza e invece di ignorarlo, valuto e lo ascolto. Così facendo sento di rispettarmi, di amarmi e di seguire il mio ritmo che è unico e perfetto così, anche se agli occhi degli altri può sembrare limitato, circoscritto, ridicolo, a dir poco adolescenziale. Ascoltando e rispettando le mie necessità sento una libertà incredibile, sento di accogliermi e di volermi bene. Soprattutto ho imparato che non posso pretendere che il restante 85% del mondo capisca cosa provo io, sarebbe come spiegare a un gatto perché non deve saltare sul tavolo se sopra c’è il pollo arrosto.
Ti guarderebbe muovere la bocca sentendo dei suoni senza senso e poi farebbe spallucce (e ci salterebbe sopra appena ti giri!) E la maggior parte delle persone che conosco ha una sensibilità pari a quella di una cover del telefonino e io sorrido di questo perché è uno scambio continuo e questo scambio continuo ci rende
persone migliori. Alla fine sono riuscita a ritrovare e confortare la piccola me che aveva bisogno di abbracci e rassicurazioni ed insieme a lei ADESSO posso affrontare tutte le domeniche pomeriggio piovose e grigie con il sorriso e una bella coperta calda. Buon Anno a tutti,
Jù.