La Tratta atlantica degli schiavi africani si riferisce al commercio di schiavi di origine africana attraverso l’Oceano Atlantico fra il XVI e il XIX secolo. La pratica di deportare schiavi africani verso le Americhe, talvolta con la collaborazione di mercanti locali, fu un elemento fondamentale della nascita e dello sviluppo delle colonie europee del Sud e Centro-America prima e del Nord-America poi. Nella sua storia delle tratte negriere dal titolo “Les traites negrières. Essai d’ histoire globale”, Olivier Pétré-Grenouilleau ricorda che, oltre alla tratta atlantica, vi furono una tratta africana e una tratta orientale. A causa della tratta e delle sue conseguenze morirono da due a quattro milioni di africani; molti afroamericani e africani chiamano questo fenomeno black holocaust oppure olocausto africano o si riferiscono a questo olocausto con il nome maafa (in lingua swahili: «disastro», o “avvenimento terribile”, “grande tragedia”).
Origini
Nel corso del XVI secolo le grandi potenze europee (Spagna, Portogallo, Inghilterra e Paesi Bassi) iniziarono a creare insediamenti in America su vasta scala. Gran parte dei vantaggi economici erano legati alla creazione di piantagioni (per esempio di canna da zucchero, di caffè e di cacao); con la penetrazione portoghese in Brasile, a questo si aggiunse la prospettiva di ricavare dalle colonie risorse minerarie. In entrambi i casi si richiedeva l’uso di grandi quantità di manodopera. Inizialmente gli europei tentarono di far lavorare come schiavi gli indigeni americani (addirittura già da parte di Cristoforo Colombo) ma questa soluzione tuttavia risultò insufficiente, soprattutto a causa dell’alta mortalità delle popolazioni native dovuta a malattie, come il vaiolo, importate dai conquistatori europei e alla loro conformazione fisica non adatta a quel genere di lavoro. Nello stesso periodo, gli europei entrarono in contatto con la pratica nordafricana di far schiavi i prigionieri di guerra. I re locali delle regioni nella zona dei moderni Senegal e Benin spesso barattavano questi schiavi con gli europei.
Gli schiavi africani erano decisamente più adatti, dal punto di vista fisico, a sopportare il lavoro forzato, perciò i portoghesi e gli spagnoli se li procurarono per mandarli nelle colonie americane, dando inizio attraverso l’Oceano Atlantico al più grande commercio di schiavi della storia, dando origine nelle Americhe a vere e proprie “economie basate sullo schiavismo”, dai Caraibi fino agli Stati Uniti meridionali.
Giustificazioni legali
Il 16 giugno 1452 papa Niccolò V scrisse la bolla Dum Diversas, indirizzata al re del Portogallo Alfonso V, in cui riconosceva al re portoghese le nuove conquiste territoriali, lo autorizzava ad attaccare, conquistare e soggiogare i saraceni, i pagani e altri nemici della fede, a catturare i loro beni e le loro terre, a ridurre gli indigeni in schiavitù perpetua e trasferire le loro terre e proprietà al re del Portogallo e ai suoi successori.
Questo documento, con altri di simile tenore, venne usato per giustificare lo schiavismo.
In seguito, tuttavia, la bolla Veritas Ipsa di papa Paolo III del 2 giugno 1537, conosciuta anche col nome di Sublimis Deus o di Excelsus, scomunicava invece tutti coloro che “praefatos Indios quomodolibet in servitutem redigere aut eos bonis suis spoliare” (“tutti coloro che ridurranno in schiavitù gli indios o li spoglieranno dei loro beni”). In questa bolla il pontefice condannava le tesi razziste, riconoscendo agli indiani, che fossero cristiani o no, la dignità di persona umana, vietando di ridurli in schiavitù e giudicando nullo ogni contratto redatto in tal senso. Il papa metteva così fine alle numerose dispute tra teologi e università, soprattutto spagnole, circa l’umanità degl’indios d’America e sulla possibilità di ridurli in schiavitù. Il papa, tenendo conto della dottrina teologica e della documentazione a lui pervenuta, volle porre dunque fine alle dispute ed emanò il verdetto: «Indios veros homines esse» (“gli indios sono autentici uomini”). Soprattutto il commercio interessò le potenze del mondo protestante, sebbene i cattolici spagnoli e portoghesi li acquistassero nelle colonie sfidando la scomunica. Dall’Italia invece tale forma di sfruttamento fu modesta o nulla.
La dimensione del fenomeno
Complessivamente, qualcosa come 12 milioni di schiavi attraversarono l’oceano (la stima è approssimata. La BBC parla di 11 milioni, l’Enciclopedia Britannica ritiene che la migrazione forzata fino al 1867 sia quantificabile tra 7 e 10 milioni; l’Encyclopedia of the middle passage fa una stima tra 9 a 15 milioni. La maggior parte degli storici contemporanei stima che il numero di schiavi africani trasbordati nel Nuovo Mondo sia tra 9,4 e 12 milioni); si tratta di una delle più grandi deportazioni della storia (e certamente la più grande deportazione, se si tiene conto che altri 18 milioni di neri furono avviati in Turchia e nei paesi arabi), che portò anche a notevoli squilibri tra la popolazione bianca e quella nera (nella Giamaica dell’inizio dell’Ottocento il rapporto arrivò a 1 a 20), e la superiorità numerica causò per gli schiavisti un continuo pericolo di rivolta degli schiavi. Potenze europee come Portogallo, Regno Unito, Spagna, Francia, Paesi Bassi, Danimarca e Svezia, come anche mercanti provenienti dal Brasile e dal Nordamerica, alimentarono questo commercio. Nel corso del diciottesimo secolo si stima che siano stati trasbordati oltre Atlantico sei milioni di individui di origine africana, il Regno Unito può ritenersi responsabile di quasi due milioni e mezzo di questi. Il numero complessivo di africani morti attribuibili direttamente alla traversata atlantica è stimato in due milioni; un bilancio più ampio degli africani morti a causa della schiavitù tra il 1500 e il 1900 fa ritenere che la cifra salga a quattro milioni. Lo storico William Rubinstein sostiene che, di questi 10 milioni, probabilmente 6 sono da attribuire a razzie o guerre tribali finalizzate alla fornitura di uomini e donne per i mercanti di schiavi.
Il passaggio
Il passaggio degli schiavi attraverso l’Atlantico, dalla costa occidentale dell’Africa al Nuovo Mondo, è noto nel mondo anglosassone come Middle passage (letteralmente: tratto o passaggio intermedio). Era infatti il tratto intermedio del viaggio che le navi compivano dopo essere partite dall’Europa con prodotti commerciali (stoffe, liquori, perline, conchiglie particolari, manufatti di metallo, armi da fuoco)che servivano come merce di scambio per l’acquisto degli schiavi da traghettare nelle Americhe, da dove le navi ripartivano cariche di materie prime, completando così quello che è chiamato il “commercio triangolare”. Il viaggio degli schiavi iniziava nell’interno dell’Africa dove gli intermediari negrieri catturavano o acquistavano gli indigeni da semplici rapitori o monarchi africani (che li avevano ridotti in schiavitù per punizione o nel corso di guerre locali). Iniziava il viaggio a piedi, talvolta in canoa, verso la costa.
Durante la marcia (nota come coffle dal nome dei ceppi con cui venivano legati a gruppi di 30 o 40) erano costretti a portare sulla testa oggetti come pacchi, fasci di zanne di elefante, mais, pelli o otri pieni d’acqua. Il trasferimento forzato fino alla costa poteva durare parecchi giorni o settimane. Sulla costa venivano imprigionati in fortezze o in capanne dette “barracoons” dove sostavano in attesa delle navi per la traversata per molti giorni o settimane. Lì poi trafficanti provenienti dalle Americhe, dai Caraibi o dall’’Europa, caricavano la “merce umana” sulle navi. La durata della traversata variava da uno a sei mesi a seconda delle condizioni atmosferiche. Le navi schiaviste tipicamente trasportavano diverse centinaia di schiavi con un equipaggio costituito di una trentina di persone (equipaggio doppio rispetto alle normali navi per poter controllare eventuali insurrezioni: mediamente in una nave su dieci scoppiavano ribellioni). I prigionieri maschi erano incatenati insieme a coppie per risparmiare spazio: la gamba destra di un uomo legata alla gamba sinistra del successivo. Donne e bambini avevano un po’ più di spazio. Le donne e le ragazze salivano a bordo delle navi nude, tremanti e terrorizzate, spesso pressoché esaurite per il freddo, la fatica e la fame, in preda alle maniere rudi (e alle violenze) di gente brutale che parlava una lingua a loro incomprensibile. I prigionieri ricevevano come alimenti fagioli, mais, patate, riso e olio di palma in uno o due pasti al giorno, ma le razioni erano scarse. La razione quotidiana di acqua era di mezza pinta (circa mezzo litro) che portava frequentemente alla disidratazione perché oltre alla normale traspirazione erano frequenti mal di mare e diarrea.
Si stima che il 15% degli africani morivano in mare, con un tasso di mortalità sensibilmente più alto nella stessa Africa nelle fasi di cattura e trasporto dei popoli indigeni alle navi.
Oltre alle malattie fisiche, molti schiavi diventavano troppo depressi per mangiare o mantenere un’efficienza fisica e mentale a causa della perdita della libertà, della famiglia, della sicurezza e della loro umanità. Il suicidio era un evento frequente attuato spesso rifiutando il cibo o le medicine o gettandosi in mare o in altri modi.
“Quando ci siamo trovati prigionieri
la morte ci è sembrata preferibile alla vita
e abbiamo concordato un piano tra noi:
avremmo appiccato il fuoco
e fatto saltare in aria la nave e saremmo morti tutti tra le fiamme”.