Ricordo ancora con emozione. Avrò avuto all’incirca una decina d’anni e vivevo una strana passione per “la donna più amata dagli italiani”. Per una volta nella mia vita, mi ritrovai nella situazione di provare, forse, gli stessi sentimenti di quel cosiddetto “italiano medio” che con gli anni non sempre ho apprezzato: ero pr…aticamente innamorato di Lorella Cuccarini e ne seguivo, quasi morbosamente, tutte le sue apparizioni in tv. Una in particolare mi colpiva, forse perché aveva il carattere dell’eccezionalità, capitava una volta l’anno e veniva presentata come un vero e proprio evento. Si chiamava “Trenta Ore per la Vita” e fu, in Italia, uno dei più riusciti esperimenti di “marketing pubblicitario” legato al foundraising. Fu in quell’occasione, che feci la mia primissima donazione proprio a due associazioni ai tempi semi-sconosciute: in senso cronologico ad AISM (contro la Sclerosi Multipla) prima, e ad AISLA (contro la sclerosi laterale amiotrofica) poi. Erano le mie “cinquemilalire” (ebbene si, ai tempi c’erano ancora le lire), quelle che i miei compagni di classe probabilmente utilizzavano per comprare le caramelle all’oratorio, quelle che invece io decisi di portare in un ufficio postale per la donazione. Non saprei dire, ora come ora, se fui spinto davvero dall’operazione mediatica e dalla mia passione verso la Cuccarini o se già spuntava in me quel senso del vivere comune che ho poi sviluppato con gli anni. Quel che so è che da lì, proprio da quella trasmissione tv, da quell’evento mediatico in cui i volti noti di tv, musica e politica si mettevano in mostra “per cause nobili”, iniziò il mio percorso di coscienza e di aspirazione verso un mondo migliore. Ricordo con commozione la lettera con relativa risposta (firmata in realtà da un suo collaboratore) che scrissi NIENTEPOPO’DIMENOCHE a Rita Levi Montalcini (allora presidentessa AISM) parlando proprio della solidarietà e della ricerca sulla Sclerosi Multipla ; ricordo le tante associazioni che in un modo o nell’altro ho avuto modo di sostenere e/o accompagnare; ricordo l’AIRC (per la ricerca sul cancro) e le sue azalee da vendere e comprare (rompendo le balle a parenti e amici affinchè le comprassero); ricordo l’AIL e le pasque in cui non c’era un parente o un amico che non ricevesse solo ed esclusivamente un uovo a sostegno della ricerca contro la leucemia; ricordo i bonsai e i preservativi contro l’Aids; ricordo poi l’Unicef e il freddo e le piogge prese per i banchetti nelle campagne contro la lotta all’AIDS infantile; ricordo una domenica mattina, in una piazza non lontana da Pontida, nel giorno di inizio del raduno della Lega Nord, a raccogliere per la mia prima volta alcune firme nella campagna globale “Non aver paura” a sostegno dell’integrazione e del superamento degli stereotipi sugli stranieri in Italia; ricordo il Cesvi e l’emozione di conoscere Takunda, il primo bambino nato sano in Zimbabwe da madre sieropositiva grazie ad un progetto che avevamo adottato, l’onore di stringere la mano ad Elizabeth Tarira, la dottoressa locale che ha scoperto il medicinale che ha salvato la vita a Takunda e a tanti altri; ricordo tante cose, tante tappe di un percorso che mi ha accresciuto e che mi ha portato ad essere quel che sono oggi e a quel che oggi faccio in Amnesty International o in altre realtà. E allora, rivivendo quei ricordi nel cuore, pur non essendo fortunatamente stato nominato da nessuno, ho deciso di dire anche io la mia sulla moda attuale del IceBucketChallenge, un’iniziativa che mi fa, son sincero, storcere un po’ il naso. Sì, proprio come quelli che amate definire “Radical Chic”, quelli che fanno i bastian contrari, quelli che si sentono alternativi nel dire “no, ma io non ci sto”. Ecco, ora vi spiego il perché. Viviamo in una società ricca di retaggi culturali che ci ingannano e ci ingabbiano in ragionamenti di apparente libertà; una società in cui spesso ci si sofferma alla superficialità delle cose; in cui le malattie da contagio muovono a pietà e quelle di “sfortuna” muovono a compassione (notare la leggera sfumatura di diversità concettuale tra pietà e compassione); in cui si dona con animo a preti in missione “per costruire scuole in Africa” e, allo stesso tempo, si inneggia ai confini della patria rendendosi complici di morte e distruzione per chi da “quell’Africa” sta cercando di scappare; in cui “sei uno stronzo” se non ti commuovi davanti ad un video di un malato di SLA che, giustamente ringrazia per la raccolta fondi di questi giorni, ma vai benissimo se scappi in preda alle paranoie davanti ad un sieropositivo che ha avuto l’ardire di stringerti la mano; in cui ci si sente parte di una “cosa importante” con un video su internet contro una brutta malattia e magari poco dopo ci si sente ancor più fighi ad additare il malato in caso di un altrettanto brutta malattia (“gli immigrati si tengano l’ebola a casa loro”). In una società di questo tipo, dunque, l’operazione mediatica assume, così come lo assunse nel mio caso con la Cuccarini, un valore straordinario che, ne sono conscio, sarebbe stupido non sfruttare per il raggiungimento di scopi realmente nobili. Credo, tuttavia, che il forte rischio possa essere quello di rendersi complici di un collettivo “lavarsi la coscienza” in una logica di ragionamento che porta, ancor più di prima, ad accettare pietà e compassione, tra l’altro circoscritte nel tempo, come alibi ad una non compartecipazione verso una soluzione collettiva. Una nobile operazione, quindi, se la si guarda in termini pratici di obiettivo singolo, ma un forte colpo dannoso, se la si guarda dal punto di vista sociologico, verso quell’ormai fin troppo dimenticato senso di vivere collettivo che dovrebbe spingere a trasformare la pietà in “pietas” e la compassione in “con-passione” all’interno di un’azione quotidiana di miglioramento per noi stessi e per chi ci vive attorno. E, allora, vien da sé, io la doccia gelata non mi sento di farla (tanto più che son raffreddato e se mi prendo la broncopolmonite poi che fate? Le docce calde per raccogliere fondi per le cure? – si ironizza, ovviamente). E, peggio ancora, da stronzo e radical chic, come a qualcuno piacerà definirmi, la donazione all’AISLA in questo ultimo periodo non mi è capitato di farla. Non sta a me dire o dirvi se e quando la farò, non sta a me dire o dirvi se e cosa sia più giusto fare. Sta a me, a tutti noi, invece – questo sì – porci qualche domanda su noi stessi, sulla società in cui viviamo e sulla capacità dei nostri occhi e del nostro cuore di sentire sulla propria pelle quelle tante, troppe docce gelate che innumerevoli persone, vicine o lontane, vivono, giorno dopo giorno, nella loro disgrazia, qualunque essa sia. Giorgio M.