Ho appena letto l’ultimo libro di Michele Serra (Gli sdraiati, Feltrinelli): il lamento ironico e disperato di un padre che ha un figlio diciottenne, appunto, “sdraiato”. Letteralmente: sempre stravaccato sul divano, intorpidito tra iPad, Ipod e smartphone, disordinato, pigro, demotivato, sepolto tra calzini appallottolati e felpe lasciate in giro, incapace di portare a termine qualunque cosa abbia iniziato, fosse pure la chiusura di un cassetto o dell’anta di un armadio. Una frustrazione comunque a molti padri (anche il mio forse ne sapeva qualcosa, dopotutto non sono passati secoli dai miei 19 anni) e a molte madri, che si interrogano su cosa hanno sbagliato, e tentano di assolversi sperando che sia una questione generazionale (un portato dalla società, come si diceva una volta), senza tuttavia trovare in ciò alcuna consolazione.
Anche perchè nel frattempo è la società stessa a proporci – accanto agli immancabili esempi negativi – ben altri modelli pre e post adolescenziali. E non parlo solo dei giovanissimi campioni dello sport o dei ragazzi prodigio della matematica oppure ancora degli imberbi cantanti di successo sfornati di continuo dai talent show. No, parlo del vicino di casa o del collega di lavoro che ti raccontano del figlio che ha vinto la borsa di studio per Harvard o che si sta facendo un mazzo tanto per frequentare l’università e intanto lavora fino a notte in un pub per pagarsi gli studi e magari lasciare qualche soldo a casa.
I talent show, dicevo. Già. Ci hanno fatto una testa così con questa favola del talento. Come si fa a diventare numeri uno? Eh, ci vuole talento, sentiamo dire. La promessa è sempre la stessa: il talento è un po’ come l’amore, da qualche parte c’è, ci deve essere, tutto sta a trovarlo.
Datevi da fare, ragazzi: volete sfondare?
Facile: non avete che da tirare fuori il talento che sonnecchia dentro di voi. E se non ci riuscite?
Bè, in questo caso ritentate, sarete più fortunati. Fino a quando dovrete prendere atto che no, il talento proprio non ce l’avete.
Qui, sta l’imbroglio. La trappola del talento, per citare un libro dell’americano Geoff Colvin. Perchè il talento non è tutto. Anzi: non è niente, senza un paio di altre caratteristiche che si chiamano passione e impegno. Pensate forse che Marco Mengoni, al netto del gossip, sarebbe diventato ciò che è se non avesse speso metà della sua vita dandoci dentro con il canto? O che Vincenzo Nibali avrebbe vinto il Giro d’Italia se non avesse passato in bici ore e ore, tutti i giorni di tutte le settimane, ogni mese, ogni anno? Voglio citarvi un terzo libro, uscito un paio di anni fa: Open, scritto da Andre Agassi e pubblicato in Italia da Einaudi.
E’ la storia di un ragazzo che è diventato una star del tennis odiando il tennis. Sempre. Fin da bambino, quando il padre lo costringeva a sfiancanti sedute di allenamento. Un allenamento costante durato più di due decenni, anche quando la schiena a pezzi lo distruggeva, anche quando solo impugnare una racchetta lo disgustava. Aveva talento, Agassi? Forse sì, forse no. Non lo sapremo mai. Se non avesse speso i giorni e gli anni migliori a rispondere allo sparapalline costruito dal papà tiranno chissà, magari sarebbe stato uno sportivo mediocre, o sarebbe finito a vendere auto usate…Impossibile saperlo, a posteriori. “Tempo più esercizio uguale risultato”: ecco qual era il suo mantra.
Agassi ha scritto l’autobiografia con l’aiuto di un giornalista americano, J.R. Moehringer. L’aveva scelto dopo aver letto il suo romanzo d’esordio, Il bar delle grandi speranze (Piemme): la storia, anch’essa autobiografica, di un giovane che voleva scrivere ma non sapeva farlo, che con un colpo di fortuna fu preso a prova al New York Times e subito bocciato. E che tuttavia, pur disperato e pressochè alcolizzato, non ha voluto mai mollare. Fino a vincere il premio Pulitzer e scalare le classifiche di vendita. Non so se ci sia una morale valida per tutti, in queste storie.
Per definizione, soltanto pochissimi diventano numeri uno, e non è neppure necessario diventarlo, per avere una vita piena e felice. Però una cosa è certa: non lo diventano per il talento, o non solo per il talento, ma soprattutto grazie alla fatica che fanno. Alle rinunce. Alla determinazione e all’ostinazione. Qualità cioè che davvero tutti possono tirar fuori da se stessi.
Ricordate: tempo più esercizio uguale risultato.
Provate un po’ a dirlo a vostro figlio “sdraiato”: di tempo dovrebbe averne.
Jù
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