Leggo in un libro di R. Siegel, uno psicologo americano: “la maggior parte della sofferenza psicologica deriva dal tentativo di evitare la sofferenza stessa.”
Concordo. Cerchiamo la felicità, vorremmo stare sempre bene, e dato che questo non accade nei tempi e nei modi desiderati, pensiamo che la nostra vita sia sbagliata, che dovremmo fare altro, che se cambiassimo lavoro, città, marito o moglie, saremmo felici. Per poi scoprire che le nostre inquietudini ci seguono nonostante i cambiamenti. Ho passato anni inseguendo il futuro e un altrove. E in fondo è una tendenza naturale con la quale facciamo i conti -credo- per tutta la vita. Però i veri momenti di felicità li provo quando mi arrendo al qui e ora. Quell’esperienza ha un sapore speciale, diverso dalla felicità che ti arriva per eventi esterni. È più intima, riverbera nel profondo. E la stessa resa vale per i periodi di sofferenza. Arrendersi non significa subire passivamente, lasciar andare, rassegnarsi. Vuol dire non fuggire nelle fantasie di periodi migliori ma stare e affrontare quel che c’è, senza smanie. Quando sono riuscita a far questo, a fermarmi nel qui e ora doloroso, quel dolore si è allentato, e allentandosi mi ha consentito di vedere più lucidamente il da farsi. Anni fa mi sono separata dal mio ex marito. È stato un dolore lacerante, ma mi ha fatto fare l’esperienza di cui sto parlando. Passavano i giorni, i mesi, e il dolore era sempre lì: lo ritrovavo la mattina quando aprivo gli occhi, mi accompagnava nella giornata ed era ancora lì quando andavo a dormire. Ho imparato a starci dentro, a conviverci senza ribellione. Facevo quel che dovevo, sapendo che non sarei stata bene per un po’ , che dovevo solo vivere giorno per giorno. Ho scritto moltissimo, e il computer è stato il mio compagno fidato. Quello “stare” è stata una svolta esistenzial Finché mi sono ribellata, mi sono agitata in tutte le direzioni come quando si finisce in acqua non sapendo nuotare: ci si dibatte con enorme fatica e scarsi risultati. Quando invece ho smesso di agitarmi, sono rimasta a galla e ho cominciato a nuotare.
Allora ho cominciato a comprendere questi versi di Rilke, della decima elegia duinese: “…Noi che sprechiamo i dolori./ Come li affrettiamo mentre essi tristi, durano, / a vedere se finiscono, forse. E sono invece / la fronda del nostro inverno, il nostro sempreverde cupo / uno dei tempi dell’anno segreto, ma non solo / tempo, – son luogo, sede, campo, suolo, dimora.” Amo questi versi. “Noi che sprechiamo i dolori…” Certo non andiamo a cercarli, ma quando arrivano, possiamo farne qualcosa, farli diventare vita e non un’apnea in attesa della vera vita che dovrà arrivare. (Il deserto dei tartari di Buzzati insegna).
E ancora, la mia amata Etty Hillesum: “Il dolore ha sempre preteso il suo posto e i suoi diritti, in una forma o nell’altra. Quel che conta è il modo con cui lo si sopporta, e se si è in grado di integrarlo nella propria vita e, insieme, di accettare ugualmente la vita.”
Marta