Dopo tanti anni rividi Federico, l’amico d’infanzia, trasferitosi con la famiglia a Milano quand’era ancora poco più che ragazzo. Era diventato un altro: irriconoscibile! Alto, snello, un po’ calvo, elegante, con baffetti, occhi chiari, labbra sottili. Uno di quegli uomini notturni che sembrano nati e cresciuti sulle sponde dei Navigli. Uomini infaticabili nonostante sembrino sempre stanchi. Uno di quei milanesi ai quali la palestra, le docce, i bagni turchi, hanno dato una forza artificiale per la loro vita di relazione, per la socievolezza, l’amabilità, la galanteria mondana che possiedono in misura speciale. Senza tabù di sorta. Un milanese in tutto e in nulla. A volte anche generoso. Indifferente, appassionato e gaudente esperto. E questo a mio personale giudizio. Quel che è certo: in me ha suscitato un grande sentimento d’invidia. Nel senso buono s’intende. Perché io non ero come lui e mi sentivo in colpa e di parecchio inferiore sotto tutti i punti di vista. Io ero rimasto in convento, lui ne era trionfalmente uscito. Altro esempio: a diciotto anni mi venne proposto un corso di pilota nell’aviazione militare. Superata positivamente una rigorosa visita medica, fui ammesso. La scuola era a Zizzola Ticino ai lati dell’aeroporto che ora si chiama Malpensa. Eravamo quindici allievi piloti e per tutto un mese si volava ogni giorno: prima con alianti portati in quota, oltre i 1500 metri, da aerei a motore. Poi si doveva scendere – sempre soli a bordo – con virate successive, fino sulla pista di partenza facendo nell’aria più volte l’otto: cioè la virata sia a destra che a sinistra. Quante volte negli anni successivi mi sono tornati in sogno quegli istanti in cui mi staccavo da terra con i comandi in mano ed il morale alle stelle! Momenti felici, meravigliosi, indescrivibili. Bene! C’era con noi un uomo sui trent’anni della fabbrica d’aerei Caproni, che pilotava per il collaudo i nuovi prototipi degli aerei militari. Me lo rivedo sempre davanti. Sembrava Federico. Anche lui milanese con le stesse caratteristiche. Un giorno passò in virata fra due pini distanti fra loro meno dell’apertura alare dell’aereo che stava provando. Entrò velocissimo in perpendicolare fra lo stupore, la meraviglia e la trattenuta del respiro da parte di tutti i presenti nell’aeroporto. Quel pilota collaudatore si chiamava Rosselli ed anche lui ha suscitato in me un forte sentimento d’invidia e di ammirazione. Cos’avrei dato per essere come lui! E siccome non c’è due senza tre, ecco un altro esempio. Negli anni della prima giovinezza mi piaceva il ballo e ne ero entusiasta. In quel tempo era proibito dalla Chiesa e dalla morale cristiana e chi lo praticava era decisamente sulla via della perdizione come coloro che mangiavano carne al venerdì o cantavano messa prima di suonare le campane. Dannati per l’eternità. Ma tant’è! Con alcuni amici abbiamo fatto questo ragionamento: la giovinezza ha un nome lungo e breve. E allora ci siamo scrollati di dosso i tabù e la paura dell’inferno e alla domenica sia andava al paese vicino dove si poteva imparare a ballare. Si cominciò fra giovanotti perché ragazze nemmeno l’ombra per i motivi citati. Si preferiva l’one-step: uno-due, uno-due, quella cadenza che cantano i soldati quando fanno la marcia. Tra i frequentatori della sala da ballo c’erano sempre alcuni abitudinari locali che, rispetto a noi principianti, erano bravi anche nel valzer e nel tango e ci guardavano dall’alto verso il basso. E noi forestieri eravamo timidi e sempre con quell’atteggiamento genuflessorio e forte senso d’inferiorità che ci ha sempre distinti e umiliati. (A Milann i a ciamen “pirla”). Per fortuna c’era anche la figlia del gestore, giovane, brava a ballare il liscio e carina direi. Molto carina. Si chiamava Adele e qualche volta, forse per tener viva in noi la voglia di tornare, ci invitava a ballare visto che a noi mancava quel minimo di coraggio di fare altrettanto. Capitava si e no una volta in tutto il pomeriggio. Ma era una cosa bellissima perché, oltre ad imparare con lei qualche passo nuovo e le cadenze della mazurka e del tango, si poteva dire di aver coronato il sogno di ballare finalmente con una donna veramente brava nel liscio anche con i ritmi del pero-doble e del valzer lento. Adele per noi era bravissima e seducente. Una dea. C’inquietava ed attirava. Subivamo il suo fascino perché improvvisamente ci siamo ritrovati in un mondo nuovo, più bello, più moderno, mai visto prima. Un mondo fatto di musica e passione. E non da ultimo: perché era proibito. Proibitissimo!!! E visto come allora venivano considerati i giovani dediti al ballo e ai locali dove avvenivano le danze, a me Adele mi scombussolava. Era un mistero. O era il più perfetto mostro di astuzia e perversità o il più meraviglioso fenomeno d’innocenza che si potesse allora trovare in quel mondo bigotto e pieno di paure senza senso, alla pari di un convento di clausura. E mi chiedevo come si potesse vivere in quell’ambiente infame con quella facilità tranquilla, trionfante, sincera e ingenua di Adele. E osservando il mondo di oggi lo vede un cieco chi stava dalla parte giusta. Ed eccoci al dunque. E ci risiamo! Invidiavo cordialmente Adele. Sempre per quel sentimento che si prova per un bene o una qualità che si vorrebbe tutta per sé. Anche la disposizione generica a provare tale sentimento dovuta ad un senso di orgoglio, per cui non si accetta che altri abbiano doti superiori alle nostre o riesca meglio nelle sue attività o abbia maggior fortuna. Per i cattolici l’invidia è uno dei sette peccati capitali in opposizione alla carità. E per noi giovani ribelli non c’era via di scampo: le porte dell’inferno erano inesorabilmente spalancate. E via col liscio! Però, diceva Federico, è meglio essere invidiati che compatiti. E ancora oggi penso a cosa si può fare per difendersi da questo sentimento. C’è un’invidia buona che deriva dall’ammirazione. E ce n’è una cattiva, silenziosa, che altro non è se non un tentativo dello sprovveduto di trascinare giù, fino a sé, l’oggetto della propria invidia. Perché si sa, la richiesta di uguaglianza è sempre un invito al ribasso. Omero diceva che è l’invidia a muovere il mondo. Siamo un po’ tutti portati, chi più, chi meno, ad invidiare qualcuno perché ha la casa più bella, una moglie più bella, o più soldi. Ma io dico che è molto più appassionante la corsa verso qualcosa piuttosto che il suo raggiungimento. Ma si può stare eternamente in corsa? Secondo me, e correggetemi se sbaglio, l’invidia cattiva non serve a nulla. Far male agli altri non serve a nulla. E poi è una perdita di tempo perché non cambia le carte in tavola. Se ci si fa caso: le cose migliori della vita sono gratis, alla portata di tutti. Perché dannarsi? Se si accettano le cose e i momenti della vita è più facile non rovinarsi il fegato. Un giorno volevo fare il pittore ma quando m’hanno detto che la pittura deve far pensare più di quello che fa vedere, ho capito che non era alla mia portata. E non mi sono dannato. Così come oggi non mi danno per i capelli bianchi o perché sono nonno e non vado più a ballare con Adele. Anzi! La grazia della vita è proprio quella di non essere mai la stessa.
Giuseppe Paganessi