Qualche giorno fa, in tram, ho ascoltato una conversazione che mi è rimasta impressa. Due amiche, sui trentacinque-quarant’anni, parlavano di come si fossero divertite la sera precedente ad una cena da amici. C’erano molte persone, la buona parte delle quali sconosciute, ed era stato piacevole “conoscere tutta quella gente nuova”.
Ascoltare il racconto della loro serata mi ha fatto visualizzare il mio peggiore incubo: in una serata come quella che stavano raccontando sarei fuggita via il prima possibile, e molto probabilmente non ci sarei neanche andata.
“Conoscere tutta quella gente nuova”, in un colpo solo per giunta, non è in cima alla lista delle mie priorità. In quei contesti la mia testa smette di funzionare e si fissa su due fondamentali pensieri: “cosa ci sto a fare qui?” e “quando potrò andarmene senza apparire sgarbata?” Da adolescente mi sentivo sbagliata, da adulta mi sento semplicemente un’introversa.
Conoscere qualcuno, per un introverso, è un viaggio lento e delicato, che richiede tempi e spazi, passi di avvicinamento e passi di distanza per metabolizzare le impressioni. Sì, perché la parola d’ordine per un introverso è proprio questa: metabolizzare.
Ho letto di uno studio longitudinale, partito nel 1989 e tutt’ora in corso, molto interessante (citato in Susan Cain, “Quiet, il potere degli introversi”, Bompiani). Ad Harvard, il dottor Kagan con i suoi collaboratori radunò 500 neonati di 4 mesi, sostenendo che sarebbe riuscito a stabilire con un buon grado di accuratezza quali di quei bambini sarebbero stati introversi e quali estroversi.
Sottoposero i bambini ad una serie di stimolazioni: palloncini colorati, suoni, oggetti in movimento, odori. Il 20% di quei bambini reagì agitandosi molto e strillando, e vennero definiti “ad alta reattività”; il 40% rimase calmo e quieto, e venne definito “a bassa reattività”; il restante 40% tenne un comportamento intermedio. Kagan predisse che sarebbero stati i bambini ad alta reattività ad avere più probabilità di diventare adolescenti introversi, e così si dimostrò negli anni successivi. Tutto questo per dire che noi introversi non siamo degli orsi asociali, semplicemente abbiamo un sistema nervoso che reagisce con maggiore intensità agli stimoli esterni, e dunque abbiamo maggior bisogno di proteggerci da quella che per noi, talvolta, è un’invasione del mondo esterno. Insomma, abbiamo più probabilità di incontrare un introverso in un blog che in una festa affollata. Comunque, introversi od estroversi che siamo, tutti dobbiamo fare le nostre fatiche relazionali, seppur di tipo diverso. Perché incontrarsi autenticamente in relazioni non superficiali è un impegno: bellissimo, ma pur sempre un impegno.
Io non potrei immaginare la mia vita senza la ricchezza di relazioni significative che ho. Sono ciò che dà senso alla mia vita. E sono anche lo stimolo che mi pungola nei miei limiti, che mi spinge a uscire dai miei confini.
Come scrive Franzen nel suo ultimo libro, “Più lontano ancora”: “… Alice Sebold parla di ‘sporcarsi le mani amando qualcuno’. Si riferisce al fango che inevitabilmente l’amore schizza sullo specchio della nostra vanità.”
Mi piace questa riflessione: la trovo profondamente vera. L’amore, anche quello contenuto nell’amicizia, è l’energia che ci sostiene mentre affrontiamo i nostri limiti, le nostre pecche, le imperfezioni. L’altro, diverso da noi, ci dà l’opportunità di uscire dall’egoriferimento narcisistico.
Enrica