Annibale, come si apprestava ad uscire dal solito bar, ebbe un brivido di freddo nella schiena non tanto per le basse temperature di quel gennaio pazzerello, quanto per il pensiero di tornare nella sua casa vuota e tanto triste e silenziosa. E come ogni sera: cena frugale e tornare a dormire da solo in quell’antico e alto letto simile ad un catafalco. Era nel mezzo del cammino della vita, cioè quasi sulla quarantina e il peso della solitudine stava per far crollare lo scapolo incallito. In gioventù era sempre stato allegro ed estroverso, nottambulo, dedito al gioco, anche d’azzardo, frequentatore di casinò. Ora la noia delle giornate sempre uguali, gli stessi amici sempre più mosci, gli stessi pettegolezzi e le stesse donne che lo avevano tanto divertito e che ora lo annoiavano tanto da fargli meditare il suicidio. Voleva in qualche modo trovare un sicuro porto riposante e tranquillo per garantirsi una vecchiaia decente senza tormenti e rimpianti. Sposarsi? Non aveva il coraggio di condannarsi al servaggio coniugale. Diceva di non sentirsi allenato all’odiosa convivenza di due persone che, proprio perché sempre insieme, si conoscono anche nei minimi pensieri e desideri. Lui riteneva che si può continuare a vivere con una donna fin quando la si conosce poco, fin quando ha qualcosa di misterioso e di inquietante nell’anima e nel corpo. Ma, come sempre succede, anche per Annibale arrivò il colpo di fulmine. In paese infatti tutti si stupirono quando nella bacheca sul sagrato, videro le pubblicazioni del matrimonio di Annibale con Giannina, figlia unica del Sciùr Brambilla. Che oltre ad essere una bella donna, sulla trentina, colta e piacente, aveva una dote di duecentomila lire. Una fortuna se si pensa che un operaio specializzato, a quei tempi, guadagnava quindici lire al giorno e lavorava 48 ore settimanali, otto giorni di ferie ogni anno e niente settimana corta. Fedeli al proverbio: “Quando si nasce siamo tutti belli. Quando ci si sposa siamo tutti ricchi. Quando si muore siamo tutti bravi e qualcuno pure Santo”, ci fu festa grande in paese, con tanti fiori rigorosamente senza spine, e molta ammirazione per gli sposi che andarono a nascondere provvisoriamente la loro felicità in casa di una zia di Giannina avendo deciso di fare il viaggio di nozze a Venezia dopo qualche giorno di intimità. Si adoravano. Giannina era soddisfatta e si era liberata di tutte le paure che l’avevano tormentata prima di compiere il grande passo. Vivevano in quell’incantevole stato che potrebbe essere chiamato l’abbagliamento di un’anima per opera di un’altra anima. Sembrava loro di essere tornati bambini: risate per nulla, ripetizioni, nullità, tutto ciò che vi è al mondo di più profondo e sublime. Si dicevano tutto per non dirsi nulla. Giannina guardava il marito e ripeteva: “Tu sei bello e spiritoso, sai vivere la vita come nessun altro, sei istruito molto più di me ma io ti sfido su queste due parole ‘TI AMO’!” E si figurava la vita con Annibale sempre così per l’eternità. Guardare con lui attraverso gli alberi le prime ombre della notte che incominciava ed era colma di presagi amorosi. Poi le stelle che non aveva mai viste così luminose! Ogni volta che il vento soffia, porta con sé più sogni e speranze d’innamorati che nuvole in cielo. Le dolci parole di Annibale, colme di chimere, erano sempre dipinte d’azzurro e tuttavia ad esse, si mescolava la vita, l’umanità e tutta la gioia e la speranza di vivere un futuro di benessere e felicità di cui Annibale era maestro. La zia li sentì più volte cantare la canzone in voga: “Un bicchier d’acqua e un bacio ardente questo è l’amor che non costa niente Quando il mio bacio ti riscalderà un bicchier d’acqua ti rinfrescherà L’amor non vuole che una ricchezza un cuore pieno di giovinezza un bicchier d’acqua, un bacio e due cuor bastan per far l’amor!” “Se sei d’accordo partiremo sabato prossimo per Venezia. Faremo finta di non essere ancora marito e moglie. Solo innamorati e ci divertiremo: alla Fenice, al Lido, in gondola. Poi faremo a piedi i vicoli e i ponticelli da Rialto a Piazza San Marco guardando le vetrine, vedrai: è tutto un altro mondo!”. Giannina era entusiasta e felicissima ed aveva smesso di pensare che questa terra è una valle di lacrime! “Andremo anche a Murano a comprare qualche utile ricordo del nostro viaggio. E a proposito ricorda a tuo padre di tener pronta la dote che porteremo con noi così saremo più sicuri e indipendenti”. Alla stazione il giorno della partenza, il suocero ripeté ai novelli sposi che era un’imprudenza portarsi tanto denaro. “Non si preoccupi paparino! Ci sono abituato. Così facendo eviteremo ritardi e formalità con assegni e quant’altro. Ed aiuterà molto la nostra luna di miele e la nostra felicità!”. Arrivati alla stazione Santa Lucia a Venezia, presero il vaporetto a due piani. “Andremo a cena in un tipico ristorante sulla Riva degli Schiavoni. Peccato che qui non si può fumare. Vado sopra in coperta a fumarmi una sigaretta. Tu guarda intanto dall’oblò com’è bella Venezia sul Canal Grande”. Il vaporetto partì e ogni tanto si fermava attraccando ai pontili. Gente saliva e gente scendeva mentre un incantevole tramonto indorava i palazzi maestosi. Ma Annibale ancora non scende a far compagnia alla sua innamorata. Giannina era la prima volta che vedeva Venezia e non aveva idea di quanto fosse lungo il Canal Grande. Allora si affacciò un po’ preoccupata alla cabina del timoniere e gli chiese: “Quante fermate ancora prima del Ponte di Rialto?” “Ma signora, siamo già al pontile dell’Accademia! La prossima è San Marco e Rialto l’abbiamo superata da un pezzo!”. “Come posso avvertire mio marito che sta di sopra?” “Vostro marito? In coperta non c’è più nessuno, andate a vedere di persona”. Salì la scaletta, guardò in ogni dove, anche sotto i sedili: nessuno! Cominciò a tremare e un brivido le percorse la schiena. Allora gridò:”Annibale!” per tre volte e per quanta voce aveva in gola. Niente! Solo lo sciaguattio dell’acqua e il leggero urto del vaporetto contro i legni del pontile. Scese a terra mescolandosi con la gente in Piazza San Marco. Credeva di sognare, troppo sgomenta e fuori di sé per capire che cosa fosse accaduto. La gente rideva e chiacchierava mentre lei aveva la morte nel cuore. Cosa fare? Dove andare? Piangeva ed era ad un passo dalla disperazione. S’informò e tornò di corsa fino al Ponte di Rialto. Entrò nei bar, guardò nei negozi e nelle viuzze: di Annibale nemmeno l’ombra. Come cercava lei, avrebbe dovuto cercare anche lui, santo Cielo! Niente! S’era quasi fatto buio. Un’ultima speranza: informare e farsi aiutare dai Carabinieri. Al distretto di polizia l’Ispettore Farinon, una donna: Marisa Farinon, fra l’altro chiede a Giannina se il marito avesse con sé del denaro: “Si, duecentomila, la mia dote” “Allora è fin troppo chiaro! Lo vede un cieco anche se pazzamente innamorato: Annibale si è defilato con il malloppo!” Ed a conferma quel giorno non c’erano state segnalazioni di altre persone che s’eran perse. Alla stazione di Santa Lucia, sul treno del ritorno, Giannina desolatamente sola, non aveva più lacrime. Credeva ancora di sognare. Un gruppo di coscritti cantava la canzone in voga: “Un bicchier d’acqua e un bacio ardente questo è l’amor che non costa niente Quando il mio bacio ti riscalderà un bicchier d’acqua ti rinfrescherà L’amor non vuole che una ricchezza un cuore pieno di giovinezza un bicchier d’acqua, un bacio e due cuor bastan per far l’amor!”