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“In Darkness”

Candidato all’Oscar lo scorso anno nella categoria “Migliore film straniero”, arriva ora nelle sale, in occasione dell’imminente “Giornata della Memoria”, una nuova pellicola che rispolvera il tema dell’Olocausto. Orrore e violenza li abbiamo già assaporati parecchie volte nel corso degli anni; tanto a livello di narrativa quanto di cinematografia (ricordiamo, fra tutti, anche solo il capolavoro del 1993 “Schindler’s List”).

Questa volta, dietro la macchina da presa, troviamo Agnieszka Holland: regista nata a Varsavia, classe 1948. Una carriera  iniziata lavorando come assistente alla regia per Krzysztof Zanussi e proseguita, poi, con collaborazioni con il suo mentore con Andrzej Wajda. Il suo primo film di circuito è stato “Attori di provincia” (1978), una tra le pellicole manifesto del “cinema dell’inquietudine morale”, premiato dalla critica al Festival di Cannes nel 1980. Carriera poi proseguita nel rappresentare personaggi con il bisogno di una via di fuga, in lotta per la realizzazione personale, alla ricerca della felicità e che alla fine falliscono o sono costretti ad accettare un dubbio compromesso (“Washington Square – L’Ereditiera” 1997, “Europa Europa” 1990, passando attraverso “Poeti dall’inferno”, 1995).

Protagonista della vicenda di oggi è Leopold: personaggio per certi versi lodevole (buon padre di famiglia) e, per altri versi, truffaldino e furfante.

Lo sfondo è quello della città di Lvov. Anno 1943. Occupazione nazista; il ghetto ebreo è stato sgomberato. Un gruppo di poveri ebrei trova rifugio nelle fogne della città: una tana recuperata proprio da quell’idraulico Leopold (per tutti Poldek), ai quali cerca di garantire sostegno, alimenti e aiuto dal pericolo dello sterminio.

Poldek, insolito angelo custode, mettendo a repentaglio non solo la propria vita, ma anche quella della moglie e della figliola, si avvale della collaborazione del suo braccio destro Szczepek. Improvvisato approfittatore di ebrei (ai quali spilla soldi in cambio della protezione) e tenendo il piede in due scarpe (suo amico è l’ufficiale ucraino Bortnik, al quale procura ebrei nascosti nei luoghi più impensabili), Poldek diverrà il loro salvatore. Basato su circostanze realmente accadute (a farne memoria è il libro, edito nel 2008, “The Girl in the Green Sweater”), in un luogo maleodorante e devastato da topi, dove gli sfortunati ebrei passeranno quattordici mesi della loro esistenza, con un tombino come unica via d’uscita per relazionarsi con il mondo esterno, la pellicola racconta di una umanità. Quell’umanità relegata ad un universo di rifiuti e scarti, senza la speranza di poter allungare lo sguardo verso un cielo impossibile, sommersa da sacchi di immondizia. Esistenze ridotte a mortificanti rifiuti, che non hanno neanche più la percezione del tempo che scorre e per le quali le fogne diventano, nel medesimo tempo, rifugio e gabbia inesorabile. Esplorando uno dei lati più oscuri della storia dell’umanità, conducendoci per mano nelle tenebre del sottosuolo (la fotografia sa ben contrapporre l’oscurità delle ambientazioni con la luce del mondo apparentemente libero), la consueta immagine dei classici campi di concentramento cede il passo, questa volta, ad un’esistenza nascosta, sprofondata nel sudiciume più riluttante, offrendoci il significato di una vita rassegnata e gettata al vento. “Il 2009 ha portato una quantità di storie nuove sull’Olocausto, attraverso libri e film. Viene da chiedersi se non sia stato detto tutto sull’argomento. Eppure, secondo me – dice la regista – il mistero principale non è stato ancora rivelato e nemmeno analizzato completamente. Come è stato possibile questo crimine (l’eco del quale risuona ancora in diverse parti del mondo, dal Ruanda alla Bosnia)? Dove si trovava l’Uomo in quel periodo critico? Dov’era Dio? Tali vicende e azioni rappresentano l’eccezione nella storia umana o rivelano piuttosto una verità oscura, intima sulla nostra natura?”. Perché questo paradosso che priva del respiro, della vita, dello spazio vitale e ci relega in una ristrettezza senza fughe? Interrogativi perennemente senza risposta. Ma una volta all’anno, almeno una volta all’anno, è bene che ci sia qualcuno (o qualcosa come un film) che ce li richiami alla mente. D’altronde, la “Giornata della Memoria” è fatta apposta: per non dimenticare.

Piergiorgio Ravasio

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