Ho visto girare su Facebook una foto che mi ha fatto molto arrabbiare. Una foto sfocata, rubata in palestra, dove si vede una donna decisamente sovrappeso: di profilo, seduta sulla palla per gli addominali, ha le braccia sollevate e le mani intrecciate dietro la nuca, per cui il viso non è riconoscibile; la foto e i commenti evidenziano e ridicolizzano i chili e le rotondità di troppo.
Parto da qui, ma allargo la riflessione.
Le persone in forte sovrappeso sono spesso oggetto di scherno, spesso non muovono empatia; più facilmente scatenano feroci giudizi piuttosto che suscitare comprensione e compassione. Di fronte ad una ragazza visibilmente anoressica, la maggior parte delle persone pensa: “poverina!”; di fronte ad un obeso: “ma guarda che ciccione!”. Al di là delle parole, i sentimenti che i due muovono sono sovente molto diversi: da una parte c’è il riconoscimento di una sofferenza, di una patologia, dall’altra no. Il “ciccione” è così perché non si sa trattenere, non ha forza di volontà, è un debole. Se è così è colpa sua; se lo merita perché non si sa controllare, se la va a cercare. Eppure, anoressia e bulimia sono entrambi disturbi.
Quante volte ho visto sorrisini, sentito battute più o meno pesanti alle spalle di una persona obesa che sudava copiosamente, o andava in affanno per la semplice fatica di camminare o arrancava per montare sul tram; quante volte ho visto sguardi di disapprovazione o di disgusto per corpi che invadevano il sedile a fianco.
Tempo fa un uomo obeso mi raccontava che spesso la mattina non faceva in tempo a svegliarsi completamente che la sua mente era già invasa dai pensieri sul cibo. Non riusciva a concentrarsi su altro perché nella sua mente si intrufolavano le brioches della pasticceria sotto l’ufficio, o le focacce della panetteria all’angolo. Era invaso da quei pensieri. La sua mente era allagata di cibo. L’unico modo per spegnere quei pensieri era mangiare. Poi si innescava il ben noto circolo vizioso di senso di colpa, angoscia, disgusto per se stessi. E per sedare quella sofferenza, per anestetizzare l’angoscia, giù altro cibo. Un inferno. Quell’uomo aveva un lavoro che gli piaceva, una moglie, dei figli; persona colta, intelligente. Lottava da anni per risolvere quel problema, ne aveva provate davvero tante, e per periodi alcune avevano funzionato, ma mai definitivamente. Nella mia vita ho avuto crisi di bulimia: leggere, per mia fortuna. Ma sufficienti a farmi comprendere ciò di cui sto parlando. Di quell’inferno ho percepito il dolore, la rabbia autodistruttiva, la vergogna.
Normalmente non ridiamo del dolore altrui. Ma il dolore delle persone in forte sovrappeso, degli obesi, è sommerso, chiuso nella prigione dei corpi appesantiti, corpi sordi e urlanti allo stesso tempo. Quel dolore sommerso non esce da lì, non arriva a farsi percepire… dunque è come se non ci fosse. E allora sembra innocuo ridere delle goffaggini di quei corpi. E poi, a volte, lo fanno loro stessi per primi. Ma non perché si divertano e abbiano realmente voglia di prendersi in giro. Lo fanno per essere accettati, per rendersi simpatici. Captatio benevolentiae, strategie di sopravvivenza. Un paio di anni fa, ad un convegno, ho ascoltato la testimonianza toccante di Marina Biglia, ex obesa. Se qualcuno fosse interessato all’argomento, ha scritto anche un libro, scaricabile gratuitamente da internet, “Il peso irragionevole. Storie di ordinaria obesità”. Nella sua introduzione scrive: “Perché questo libro? Molto facile dare una banale spiegazione: nessuno ha mai scritto nulla di simile, non esiste un libro in cui l’obeso racconti il suo sentire.” Non so se veramente non esistano altri libri così, ma resta il fatto che il sentire dell’obeso è davvero poco ascoltato, poco conosciuto. E’ un dolore lontano, che però incrociamo tutti i giorni per strada, sui mezzi pubblici, in ufficio, in palestra…
E’ un dolore che chiede perlomeno sguardi di rispetto.
Alice