Mostro di Firenze è la denominazione sintetica utilizzata dai media italiani per riferirsi all’autore o agli autori di una serie di otto duplici omicidi avvenuti fra il 1968 e il 1985 nella provincia di Firenze. Le Procure di Firenze e Perugia sono state impegnate in numerose indagini volte ad individuare dapprima i responsabili esecutori materiali, individuati nei Compagni di Merende (ossia Pacciani, Lotti e Vanni) per 4 duplici omicidi, poi i possibili mandanti. In particolare, le indagini si sono focalizzate su un possibile movente di natura esoterica, che avrebbe spinto una o più persone a commissionare i delitti. L’inchiesta avviata dalla Procura di Firenze ha portato alla condanna in via definitiva di due uomini identificati come autori materiali di 4 duplici omicidi, i cosiddetti “compagni di merende”: Mario Vanni e Giancarlo Lotti (reo confesso e chiamante in correità dei presunti complici), mentre il terzo, Pietro Pacciani, condannato in primo grado a più ergastoli per 7 degli 8 duplici omicidi e successivamente assolto in appello, è morto prima di essere sottoposto ad un nuovo processo di appello, da celebrarsi a seguito dell’annullamento nel 1996 della sentenza di assoluzione da parte della Cassazione.
La vicenda ebbe molto risalto: fu il primo caso di omicidi seriali in Italia riconosciuto come tale, e uno dei più sanguinosi del Paese, oltre che dilatato nel tempo. Creando una vera e propria psicosi da mostro, di anno in anno, mise le basi anche per riflessioni dal punto di vista sociale: suscitando estrema paura per la tipologia di vittime (giovani fidanzati in atteggiamenti intimi), aprì l’opinione pubblica italiana al dibattito sull’opportunità di concedere con maggiore disinvoltura la possibilità per i figli di trovare l’intimità a casa, evitando i luoghi isolati e pericolosi
Le modalità dei duplici delitti
I reati del Mostro di Firenze si sono sviluppati nell’arco di quasi 20 anni (precisamente 17 anni e 17 giorni) e hanno riguardato giovani coppie appartatesi nella campagna fiorentina in cerca di intimità. Le costanti della vicenda attengono anche ai mezzi usati e al modus operandi dell’omicida: i delitti sono avvenuti nelle medesime circostanze di tempo e di luogo. Tranne nel duplice omicidio del 1985, in cui le vittime erano in una tenda da campeggio, tutte le altre coppie di vittime erano all’interno di autoveicoli. Luoghi appartati e notti di novilunio, o comunque molto buie, quasi sempre d’estate, nel fine settimana o in giorni prefestivi. È sempre stata usata la stessa arma da fuoco, identificata in un modello di pistola Beretta appartenente alla serie 70 (viene ormai dato per certo che si tratti del modello 74 o 76 da dieci colpi), calibro 22 Long Rifle, in commercio dal 1959, probabilmente un modello con canna lunga, sviluppata come propedeutica alla disciplina sportiva del tiro a segno, caricata con munizioni Winchester marcate con la lettera H sul fondello del bossolo (provenienti da almeno due scatole da 50 cartucce ciascuna), con palla in piombo nudo e con palla in piombo ramato galvanicamente.
Generalmente, soprattutto nei delitti esplicitamente maniacali, il serial killer sparava preferibilmente prima alla vittima maschile e poi alla donna. La vittima femminile, quando subiva le escissioni o veniva martoriata con l’arma da taglio, veniva trascinata, spostata, allontanata dall’auto e dal partner. Spesso le vittime, sia maschili che femminili, subivano pure ferite d’arma bianca inferte post-mortem. In quattro degli otto duplici omicidi, l’assassino ha asportato il pube delle donne uccise, servendosi di un’arma bianca. Negli ultimi due casi venne asportato anche il seno sinistro delle vittime femminili.
La serie di delitti e i primi sospettati
21 agosto 1968 (mercoledì):
L’omicidio di Antonio Lo Bianco e Barbara Locci
La notte del 21 agosto 1968, all’interno di una Alfa Romeo Giulietta bianca posteggiata presso una strada sterrata, vengono assassinati Antonio Lo Bianco, muratore originario di Palermo di 29 anni, sposato e padre di tre figli, e Barbara Locci, casalinga di 32 anni, originaria di Villasalto, in Provincia di Cagliari. I due erano amanti; la donna era sposata con Stefano Mele, un manovale sardo emigrato in Toscana alcuni anni prima. In auto c’era anche il giovanissimo Natalino Mele, di soli 6 anni che, dopo aver sostenuto per giorni di non aver sentito, né visto nulla, adesso ammette di aver visto al suo risveglio il padre, e che questo lo avrebbe preso sulle spalle portandolo fino alla casa del Vingone dopo avergli fatto promettere di non dire nulla. È a questo punto che Mele cede confermando la versione del figlio, scagionando le altre persone accusate fino a quel momento. Nonostante le molte incongruenze e l’assenza dell’arma, nel marzo del 1970 Stefano Mele viene condannato dal tribunale di Perugia in via definitiva alla pena di 14 anni di reclusione. La pena è piuttosto mite perché l’uomo viene riconosciuto parzialmente incapace di intendere e di volere. Gli vengono inoltre inflitti 2 anni di reclusione per calunnia contro i fratelli Vinci.
Durante il processo a Stefano Mele, Giuseppe Barranca, cognato di Antonio Lo Bianco, collega di lavoro di Mele ed anch’egli amante della Locci, raccontò che la donna, pochissimi giorni prima del delitto, si era rifiutata di uscire con lui dichiarando che “potrebbero spararci mentre siamo in macchina” e, in un’altra occasione, gli aveva raccontato che c’era un tale che la seguiva in motorino. Una deposizione analoga fu resa da Francesco Vinci, che parlò di un uomo in motorino che avrebbe pedinato la Locci durante i suoi appuntamenti con gli amanti.
14 settembre 1974 (sabato):
L’omicidio di Pasquale Gentilcore
e Stefania Pettini, Borgo San Lorenzo
Sei anni dopo ha luogo il primo duplice omicidio di apparente natura maniacale; Pasquale Gentilcore di 19 anni, impiegato alla Fondiaria Assicurazioni, e Stefania Pettini, 18 anni (assieme a Pia Rontini, la vittima più giovane del serial killer), segretaria d’azienda presso un magazzino di Firenze ed attivista del Partito Comunista Italiano, vengono uccisi. Pasquale Gentilcore, seduto al posto di guida, viene raggiunto da cinque colpi esplosi da una Beretta calibro 22 Long Rifle, la stessa utilizzata nel delitto del 1968; i colpi mortali arrivano dal lato sinistro della 127. La ragazza viene raggiunta da tre colpi che tuttavia non la uccidono; viene trascinata fuori dall’auto ancora viva, resa del tutto incapace di fuggire a causa delle profonde ferite alle gambe provocate dai tre proiettili, e uccisa con tre coltellate profonde allo sterno. Dopo averne disteso il corpo dietro l’auto, l’assassino continua a colpirla per altre 96 volte, colpendo anche il seno ed il pube. Successivamente l’omicida penetra la vagina della ragazza con un tralcio di vite; particolare questo che, anni dopo, farà pensare ad un possibile movente esoterico, ma che altri più semplicemente interpretano come un ulteriore oltraggio da parte dell’assassino al corpo della vittima; considerato infatti che il luogo del delitto era sito in prossimità di alcune piante di vite, è molto probabile che il gesto non fosse premeditato. Le sevizie sul corpo di Stefania furono tanto violente da causare, in sede processuale, lo svenimento di un Carabiniere durante l’udienza in cui venivano mostrate le foto del corpo della ragazza.Prima di lasciare il luogo l’omicida colpisce con il coltello anche il corpo esanime di Pasquale con 5 coltellate all’altezza del fegato.
Fonte Wikipedia
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