Dopo anni sono tornato al paese. Il giro dei parenti è stato breve, perché molti di quelli che lasciai quando partii sono ora qui. Al cimitero. L’ultima volta che passai fu almeno vent’anni fa. Non molto è cambiato.
Il vialetto è sempre di sassolini bianchi e grigi, che ogni giorno scricchiolano sotto i piedi al passaggio delle numerose vedove del paese.
Le tombe sono ben tenute, perché le medesime vedove si occupano dei sepolcri di tutti i membri della propria famiglia, che lì riposano. Puliscono e spazzano. Cambiano i fiori, mormorando preghiere. Più spesso si trovano in piccoli capannelli ornati di pettegolezzi. Siccome il paese è piccolo, sono anche tutte imparentate e le tombe sono considerate un onere comune.
I vialetti principali sono disposti a croce. Il primo collega l’ingresso alle cappelle delle famiglie abbienti. Il secondo unisce i due lati dei colombari. Le sepolture più recenti. Mentre le persone importanti hanno le proprie tombe affacciate sui vialetti. Tutto sommato è una magra soddisfazione dopo il trapasso. Passeggio in mezzo a volti di persone che conoscevo. Non provando tutta la tristezza che avrei dovuto. Arrivo al centro di uno dei quattro lotti di terreno si trovano delle antiche steli e statue, che il tempo ha corroso e divorato con il suo insaziabile appetito. Un angelo di pietra scura tiene le mani giunte, in muta inutile preghiera. Alcune steli consumate dalla pioggia e dal vento sono ormai illeggibili. Su una si vede una parte di una data. Su un’altra il frammento di un nome. Su un’altra il solo numero uno. Poi mi ricordo. Quella notte. Nascosta nei recessi della memoria. Avevo all’incirca dieci anni. E fui fregato. Ero tra i più piccoli della mia compagnia. I ragazzi del paese ci tenevano alla larga, perché noi eravamo della cascina. A loro volta i ragazzi della cascina più grandi non ammettevano nei loro giochi i più piccoli. Tra cui io.
Così li sfidai. Non so ancora come fu possibile. Quando la sfida venne lanciata, mi guardai intorno, per capire chi avesse parlato. Con grande stupore mi resi conto che era stata la mia lingua a muoversi contro di me. Le parole si erano precipitate fuori dalla bocca, senza che me ne rendessi conto. Passerò la notte nel cimitero, avevo detto. Gli altri rimasero impressionati dal mio coraggio e accettarono la sfida. Ma non ebbi via di scampo. Fregato, appunto. Quella notte estiva tardò ad arrivare. Ingannai i miei genitori, dicendo che avrei dormito da un amico, che mi resse il gioco. Tutti andammo al cimitero. Cercai di camminare a testa alta, fingendo un coraggio che in realtà non avevo. Parlai anche il mento possibile, per evitare che gli altri si accorgessero di quel lieve tremito nella voce.
Mi issai a fatica sul muro di cinta. Quando fui a cavalcioni, guardai giù. Da un lato i miei amici si stavano allontanando velocemente, immaginando eccitati ed impauriti la mia avventura. Dall’altro vedevo i lumini delle tombe, che tentavano di combattere eroicamente contro il buio della notte. Mi gettai all’interno. E mi feci male alla caviglia. Quella maledetta ghiaia mi fece scivolare e presi una storta.
Cercai subito un angolo riparato, che mi consentisse di tenere d’occhio tutto il cimitero. Avviandomi con passo malfermo verso le pareti dei colombari udii un rumore. Oltre allo scricchiolio della ghiaia mossa dai miei piedi, ebbi l’impressione di sentire qualcos’altro. Un brivido mi scosse la schiena. Tremiti ghiacciati mi percorsero i nervi. Un altro suono. Voci? Impossibile!
Mi nascosi svelto dietro ad una lapide. Le voci sembravano provenire dal centro di uno dei quattro settori in cui era diviso il piccolo campo santo. Non so dove presi il coraggio ma cedetti alla curiosità e piano mi avvicinai. Su quei monumenti di una memoria dimenticata stavano seduti alcuni ragazzini. Tutti erano vestiti di stracci laceri e consunti. Erano sporchi. Pallidi.
Cosa facciamo ‘stasera? chiese l’unica femminuccia del gruppo.
I suoi capelli biondi sembravano bianchi nel chiaro di luna. Un ragazzo più grande seduto su una pietra logorata dal tempo stava facendo ciondolare stancamente una gamba. Sembrava di umore tetro. Altri due sedevano a terra. Annoiati. Trattenni il fiato per un tempo indefinito. Stavano a capo chino. In quel momento non parlavano. D’un tratto tutti alzarono i visi e si voltarono nella mia direzione. Mi guardarono. La ragazzina mi sorrise.
Chi sei? Chiese. Balbettai il mio nome. Lei mi fece cenno di avvicinarmi. Gli altri continuavano a tenere fissi su di me i loro occhi. Tremando gli andai vicino. Io sono Angelo, disse ancora la bambina. Loro sono Anto, Luglio e Uno.
Gli altri accennarono sorrisi tristi. I volti pallidi.
Cosa ci fai qui? Disse Uno, il più grande che aveva tutta l’aria del capo. Non sei il benvenuto. Anche qui, pensai. In paese non mi vogliono. In cascina non mi vogliono e perfino questi ragazzini strani non mi vogliono. Ora basta. Il mio amor proprio reagì all’affronto. Sono venuto qui per giocare, dissi. Tutti sgranarono i loro occhi. L’ombra triste venne scacciata da una luce strana. Sorpresa. Gioia, forse.
Con noi? chiese Angelo. Che bello! esclamò battendo le mani. Quella notte fu indimenticabile per me. E fu solo la prima di molte altre che passai nel cimitero, per giocare. Quell’estate vidi molto meno il sole che le stelle. Poi cambiai casa. Lasciai il paese per la città e feci passare molti anni. Come accade, dimenticai quel frammento della mia infanzia. Anche se prezioso.
Adesso tutto è tornato ma non tornerò da loro. Non invaderò la loro eterna fanciullezza con la mia goffa mole da adulto. Non farò altro che posare fiori freschi sulle loro dimore eterne, sperando che questa notte nei loro giochi si ricorderanno di me.
un fiaba nera di AGO