C’è il mondo politico che non impara il rispetto del bene comune, preferendo la rissa perpetua al camminare insieme per un pezzo di strada.
Le regioni permangono in paranoia olfattiva, l’economia in ribasso per il miglior offerente. Gli ultimi costantemente presi per il bavero, i primi della classe come sempre neppure sfiorati dalla follia della sopravvivenza.
Il covid-19 sale, scende, s’arrende, avanza, vince, perde, sta sempre lì, come una prostituta impenitente. Poi c’è anche il carcere sbandierato dagli scaltri manufatturieri delle parole valigia, a scapito dell’altro carcere del silenzio imposto ai narratori che il carcere lo conoscono meglio della propria casa, che ben sanno: “è spesso la follia a spingere la gente dentro una galera oppure è la galera a produrre come un suo effetto inevitabile, quasi calcolato in anticipo, la follia”. Un carcere di cui nessuno parla, chi ci prova a tracciarne la devastante ingiustizia viene messo subito a tacere, non occorre seviziarlo, no, è sufficiente approntare un percorso in testa e coda, al termine del tragitto i cani di Pavlov faranno le solite foto ricordo. Non c’è da parlarne dei troppi suicidi, dei morti disperati, dei feriti, dei contagiati dal virus e degli isolati perennemente. Non c’è da raccontare del sangue e delle urla, neppure delle vittime, né dei colpevoli né degli innocenti, Il carcere che oggi serve, soprattutto per domani, è quello del silenzio, delle omertà moltiplicate e ben inquadrate in una somma di follia che è inutile stare ad ascoltare, occorre fare poco rumore, perché altrimenti la violenza, l’ingiustizia, il sopruso, le dignità spaccate non potrebbero assicurare quella famosa sicurezza di cui tanto si parla. Il silenzio regna incontrastato, nel silenzio ogni cosa ritorna al suo posto, posizionato dove era prima del covid-19, delle proteste, dei morti e dei feriti, delle denunce rese in fondo a qualche cassetto. A fare da copia incolla a tutto questo immagazzinamento dell’indifferenza, rimane a farla da padrone la galera del tempo bloccato, dove addomesticare non sta a educare, dove la malattia della follia contagia più del virus.
Un tempo bloccato dove non c’è autorizzazione a riesaminare un bel niente del proprio vissuto, accompagnamento a sentire desiderio di cambiamento che bussa forte alla propria coscienza, nessuna concessione ad appropriarsi di uno spicchio seppur miserevole di vista prospettica. Rimane il tempo bloccato assai più devastante del sovraffollamento, delle botte, delle umiliazioni, fino a farti sentire estraneo a coloro che non fanno più parte del tuo spazio vitale, peggio, è il sommerso della disperazione, della rabbia, che fanno si che tu non sei più parte di alcun luogo. Ho l’impressione che questo carcere costringa a torsioni innaturali quanto il reato commesso, su questa linea di confine che sembra non appartenere ad alcuno, è fin troppo facile affermare con una verità comprata al supermercato delle parole che in galera non ci finiscono gli innocenti, o più demenzialmente non ci finisce nessuno. Il carcere è incomprensibile al punto che ci entri come cittadino adulto, e se tutto va bene, ne esci come un adulto bambino, pronto alla detonazione.
In questo periodo di paralisi sensoriale c’è in atto un nascondimento della follia individuale, dimenticando quella sociale in fase di implosione, peggio, di indifferente fatalità, al punto da accettare passivamente la tesi di un carcere-recinto dove ognuno è potenzialmente un morto che cammina. Forse sarà bene e meglio, vedere e sentire quel che è sotto gli occhi di tutti per richiedere subito un balzo in avanti, perché nelle carceri le persone muoiono, non scontano soltanto una condanna, ma un sovrappiù che consiste nelle sofferenze fisiche e psicologiche, negli abbandoni e nelle rese di una sconfitta che non esprime alcuna pietà. Sopravvivere abbrutendosi non ha alcun valore di interesse collettivo. Fino a quando non si comprenderà che in carcere si va perché puniti e non per essere puniti, momento dopo momento, giorno dopo giorno, anno dopo anno, in compagnia del solo passato che ricompone la sua trama, e passato, presente e futuro sono lì, in un presente che è attimo dove non esiste futuro. I silenzi imposti tentano di nascondere assenze e mancanze politiche, giungendo a fare di qualche certezza il terreno fertile della dubbiosità, al punto da raccontare che sulla giustizia, sulla pena, sul carcere, le modalità da registrare sono quelle che vorrebbero la prigione come un albero senza radici, una città senza storia, un luogo di castigo sommerso indicibile, una sopravvivenza-negazione di una reale possibilità di riscatto da parte di chi paga il proprio debito alla collettività. Questi sono tempi grami, forse sarà più salutare per ognuno e per ciascuno tenere bene a mente le parole pronunciate da un grande Direttore di prigione: “il carcere dovrebbe arretrare nella sua voglia di dominare, controllare, punire, e mettere al centro della propria filosofia di vita la persona, diventando un’istituzione di servizio”.
Vincenzo Andraous