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“I due volti di gennaio”

Furono i romani a dare il nome al mese di gennaio ispirandosi a Giano, il dio degli inizi e delle transizioni: un nome che evoca sia la fine del vecchio che l’inizio del nuovo; una figura che rappresenta la dualità dell’uomo (tanto è vero che Giano viene raffigurato con due facce che guardano in direzione opposta: una verso il futuro e l’altra verso il passato). E questo pare essere proprio il destino dei due uomini protagonisti della pellicola; un destino che si intreccia rendendoli sempre più legati.
Siamo nel 1962. Un’affascinante coppia di americani, il carismatico Chester Macfarland (interpretato da Viggo Mortensen, candidato all’Oscar per Il signore degli anelli, The road e History of violence, qui molto bravo nella transizione da  uomo taciturno ad incontrollato) e la seducente e giovane consorte Colette (la Kirsten Dunst di Spider-Man e Marie-Antoinette, nella parte – un po’ secondaria – della moglie attratta da un giovane sconosciuto), in occasione di un loro soggiorno europeo, stanno girando per Atene. Mentre visitano l’Acropoli incontrano Rydal (l’Oscar Isaac di Nativity, The bourne legacy e Agorà, oggi novello artista della truffa e dal fascino accattivante), giovane americano che parla il greco e lavora come guida turistica raggirando e imbrogliando le turiste.Attratto dalla bellezza di Colette e impressionato dalla ricchezza e dalla raffinatezza di Chester, il giovane accetta volentieri il loro invito a cena.
Ma non tutto è come sembra. L’apparente affabilità di Chester nasconde segreti più oscuri. Appena Rydal arriva nel lussuoso hotel dove la coppia alloggia, viene convinto da Chester ad aiutarlo a sbarazzarsi del corpo di un uomo, apparentemente incosciente, con la scusa di essere stato aggredito da quest’ultimo. Nella foga del momento, Rydal accetta; ma gli eventi prenderanno una piega più sinistra, ritrovandosi troppo coinvolto ed impossibilitato a tornare indietro. La sua crescente infatuazione per la vulnerabile e ben disposta Colette provoca la gelosia e la paranoia di Chester, dando vita ad un teso e pericoloso testa a testa fra i due uomini.
Il loro viaggio li porterà dalla Grecia alla Turchia e ad un finale drammatico girato nei vicoli del Grand Bazaar di Istanbul. Basato sull’omonimo thriller psicologico di Patricia Highsmith (autrice anche del romanzo Il talento di Mr. Ripley, accolto con maggior favore dalla critica e dal pubblico) e pubblicato per la prima volta nel 1964 ed edito in Italia da Bompiani, a mettersi dietro la macchina da presa è Hossein Amini (che oggi debutta alla regia e che, sceneggiatore di origine iraniana, ha, trai suoi precedenti crediti, Jude, Le quattro piume e Biancaneve e il cacciatore). Colpito dal romanzo (anche se, a suo giudizio, un po’ “generico, incoerente ed illogico”), letto più di venti anni fa, Amini si cimenta, senza approfondire troppo i personaggi, in una rivisitazione dove la scelta di fondo è quella di essere un semplice complice dei loro errori, solidale con i loro dilemmi emotivi e morali e di condividere il loro dolore e le loro paure.
Ispirandosi ai personaggi del libro (pur con l’inevitabile rivisitazione in chiave cinematografica), il regista incorpora elementi tipici del sofisticato thriller di una volta con i canoni della modernità, grazie ad un ritmo  sostenuto e ad un’assenza di artifici nell’intreccio.
Confeziona un thriller che ha una buona presa sul pubblico, grazie a quella giusta dose di thriller che richiama alla mente i gloriosi film del passato sui misteri familiari a cui dare una risposta (ricordiamo, tanto per citarne alcuni, i classici gialli in stile Hitchcock, capostipite del thriller, come L’uomo che sapeva troppo, Delitto perfetto, La congiura degli innocenti), ma senza rinunciare ad aggiungere il proprio tocco di originalità. Film dalla regia moderata e che punta all’essenziale, evitando di fare ricorso a forzature particolari o ad effetti speciali superflui, dove ogni personaggio nasconde la sua personalità (da qui il titolo della pellicola, come già spiegato).
Thriller di vecchio stampo, senza pretese particolari, se non quello di raccontare un dramma sviluppato in maniera fluida e scorrevole, nascondendo, dietro al dramma familiare, al mistero e al tradimento, ciò che il regista sembra voler portare ai nostri occhi: la tragedia della separazione di un figlio dal proprio padre e l’immagine di un giovane che guarda ad un uomo con l’ammirazione innocente di un figlio. Sostenuto da una scenografia che ci rimanda al cinema tradizionale (da notare i costumi, le ambientazioni, la fotografia, l’uso dei colori) e che si ispira ai classici canoni del thriller poliziesco del secolo scorso, I due volti di Gennaio è un buon thriller, cupo quanto basta, abbastanza appassionante e ben calibrato; con l’inevitabile omicidio e con un evolversi di fatti che incideranno per sempre sulle esistenze dei vari protagonisti. Consigliato tanto ai nostalgici, fedelissimi del vecchio cinema, quanto a quelli interessati alle trame moderne, con quel pizzico di suspence che non lo fa cadere nel convenzionale e nello stereotipo.
Piergiorgio Ravasio

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