Mi chiedo se serva pensare che apparteniamo o torniamo a una realtà ulteriore – storica, naturale, religiosa, politica, ideale – una specie di “catena dell’essere” di cui siamo un anello importante, per quanto piccolo.
Perché affidando la propria esistenza a ordine superiore le tessere del gioco dovrebbero andare al loro posto così che noi potremo congedarci sereni? Cosa diamo in cambio di questa esile speranza? Su cosa investiamo per mettere a tacere le domande senza risposta e saldare i conti che non tornano?
Raymond Carver è uno scrittore minimalista che racconta con parole asciutte e descrizioni essenziali un’umanità sofferente. Le sue narrazioni sono precise come i tagli di un diamante, con sfaccettature ardite e superfici lisce che proiettano sull’oscurità le rifrazioni della luce. Potenza linguistica e spietatezza concettuale che si ritrovano nella raccolta di poesie “Il nuovo sentiero per la cascata”, pubblicata dopo la sua morte per tumore. Il libro è frutto anche della collaborazione della moglie Tess Gallagher.
Poesie scritte al limite della vita senza pretese di redenzione o pentimenti dell’ultima ora.
Al contrario, in una poesia afferma che rifarebbe tutto, ma “proprio tutto”, della propria vita, anche gli atti terribili e distruttivi. Messo di fronte alla totalità della propria vita, la ripercorre senza protezioni, scuse o alibi perché rifiutarne o alterarne una parte significa tradirla tutta.
Del resto, pare che Carver non voglia neanche consolarsi o giustificarsi ricorrendo a un ordine ulteriore – naturale, religioso, metafisico o storico – che dia senso agli eventi. Il problema per noi è trovare un pensiero che schiuda possibilità individuali e non certezze metafisiche.
Le vicende individuali sono come pulviscolo nel soffio del vento divino, nella tempesta dell’evoluzione naturale, nell’inesorabile divenire della Storia ma allo stesso tempo sono così ostinate da non poter essere inserite in nessuna logica, senza che la frantumino, come la polvere negli ingranaggi. Nella morte, poi, si cerca la vita, e non dà pace il suo dissolvimento nell’infinito mare dell’essere o nell’accecante, eterna luce divina che tutto uguaglia rendendo tutti funzioni all’interno di piano preordinato. Perché è doppia l’angoscia del morire: da un lato l’essere dimenticati e dall’altro la scomparsa di ciò che abbiamo fatto della nostra esistenza. La prima riguarda le storie che ci legano agli altri.
I racconti di qualsiasi vita sono innumerevoli e in continuo aggiornamento. Come un cespuglio spinoso e profumato da cui fioriscono boccioli di specie diverse, ogni gesto ha un proprio racconto, ogni racconto ha episodi e capitoli che si aggiungono ridisegnando la trama.
Mentre cerchiamo riconoscimento nei capovolgimenti delle nostre vicissitudini, speriamo di vivere a lungo nell’antologia narrativa di amici, parenti, amanti, colleghi, conoscenti, sapendo che il come siamo raccontati conta di più di ciò per cui siamo raccontati. Poi c’è ciò che liberamente abbiamo fatto di noi stessi e il modo unico in cui abbiamo elaborato la vita; la posizione presa al sorgere della consapevolezza e da cui abbiamo sentito, vissuto e pensato per il resto della vita. Riflessioni, intime e spesso inconfessate, con le quali ritorniamo su ciò che siamo e ciò che possiamo essere.
La metamorfosi per cui liberamente diventiamo ciò che siamo e per la quale la nostra esistenza individuale assume una forma che la “catena dell’essere” non è in grado di conservare. Troppo ordinata e oggettiva per conservare l’imprevedibilità individuale. Per Carver questa elaborazione riguarda la capacità di amare e di essere amato, come riscatto del dolore subito e provocato, della distruzione e della solitudine.
Ultimo frammento
E ha ottenuto quello che volevi da questa vita, nonostante tutto?
Sì.
E cos’è che volevi?
Potermi dire amato,
sentirmi amato sulla terra.
E se la “catena dell’essere” rendesse attraente proprio ciò che temiamo della morte: l’individuo, come soggetto attivo che ha vissuto, sbagliato e amato, svanisce nell’indefinito mentre i vivi sono sollevati dalla responsabilità del raccontarsi? Perdiamo la nostra storia individuale, con il suo fardello, ma guadagnamo il ruolo di rotella insignificante nella “catena dell’essere”, appunto. Perché in fondo conta l’amore che abbiamo dato e che abbiamo ricevuto.
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