Qualche tempo fa Johannes Haushofer, docente di Psicologia a Princeton, pubblicò su Twitter il curriculum dei suoi fallimenti. Inserì i programmi di dottorato che non lo avevano accettato, le borse di studio che non aveva vinto, le domande di assunzioni respinte, i premi e i fondi di ricerca che non aveva ricevuto, gli articoli spediti e rifiutati da riviste scientifiche. Una lista di flop, una macchia nera sbandierata come un trofeo, una sfilza di ombre, improvvisamente illuminante.
Rivelando i propri insuccessi, Haushofer ha voluto bilanciare la storia della sua carriera, indiscutibilmente brillante; dimostrare che ogni risultato raggiunto è il risultato di una o più sconfitte, sprone e non freno delle nostre vite.
Di Haushofer e della sua impudica e istruttiva impresa, né prima né ultima nel suo genere, si sono
occupati la Rete e molti giornali stranieri e italiani.
Evidentemente, in questi tempi di porte chiuse, di muri, di fatica, di strade in salita che sembrano non scendere mai, di frustrazioni, la condivisione dei propri giorni no è una pratica virtuosa e liberatoria. La consapevolezza che i vincitori sono stati messi al tappeto prima di alzarsi e riprendere la corsa, che il nostro insegnante, il nostro modello, il nostro capo e persino il nostro vicino di casa che incrociamo ogni mattina azzimato e trionfante, hanno mangiato polvere e ricevuto botte in testa, è consolatoria. La capacità altrui di imparare dai propri errori e costruirci sopra i futuri traguardi è d’ispirazione. Il coraggio di guardare in faccia le proprie delusioni è un’arte vitale che andrebbe insegnata nella scuola dell’obbligo.
Ognuno di noi ha un curriculum di fallimenti.
Nella mia lista nera figurano gare abbandonate prima ancora di cominciare la corsa, rinunce, deprimenti no, inadeguatezza, fragilità, esclusioni e auto esclusioni. La condivisione inizia da se stessi, aprendo i propri armadi e liberando gli scheletri. Condividere è sedersi a un tavolo con altri tre o trecento, ma anche guardarsi allo specchio, vedersi brutti e non arrossire o deprimersi. Condividere è anche mostrare i nei e le cicatrici che ci rendono imperfetti, macchiati e unici.
In prima media la mia professoressa di Educazione artistica, guardandomi disegnare un albero -forse il più mostruoso e deprimente albero della storia dei disegni di alberi – scosse la testa e mi disse: “Proviamo con la natura morta”. Al cospetto di mele che parevano banane e banane che somigliavano ad artigli di strega, lei mi propose figure geometriche. Per darmi un’ultima chance, mi domandò uno schizzo a scelta. Alla fine dichiarò: “Non importa”, e da allora, per lei, smisi di esistere. Il tentativo di imparare a suonare la chitarra s’infranse contro la mia impazienza e la mia incapacità di distinguere i suoni. Non sono mai stata capace di tradurre il latino ed è solo grazie alla generosità e al talento di Samantha Tomasoni che mi suggeriva durante le versioni che sono uscita dal tunnel del liceo sociopsico-pedagogico. Per un intero anno ho pensato che la danza fosse la disciplina per cui ero nata, il movimento per cui il mio corpo era venuto al mondo. Capii che non era così quando mi misero in ultima fila, all’ombra, al saggio di fine anno.
Non ho provato il test della scuola di giornalismo perché ero convinta di non essere abbastanza brava per passarlo, mi bocciarono due volte all’esame per la Patente Europea del Computer, fui massacrata durante il colloquio per entrare in una grande compagnia assicurativa, vomitai sui piedi del mio primo fidanzato quando mi disse: “Io ti lascio”.
Sottoposi all’attenzione di una casa editrice importante orribili racconti, di cui ancora mi vergogno. Bussai alla porta di un giornale che amavo e la caporedattrice mi congedò con due parole: “Lascia
stare”. Potrei andare avanti per pagine e pagine, ben più a lungo rispetto all’esiguo curriculum del
professore di Princeton che, in barba ad anni di studi e successi, ha avuto il suo momento di vera
gloria solo con la pubblicazione dei suoi flop.
Da quel Novembre 2013 ne ho percorsa, di strada. Ne conservo le tracce dentro i miei trenta taccuini formato A5: poesie, pezzi di dialoghi, storie, canzoni strampalate, riflessioni, dediche e qualche disegno.
Scrivere è diventato un gioco molto serio, una splendida responsabilità. Non so se le mie storie abbiano cambiato la mia vita a qualcuno di voi. Di sicuro, l’hanno cambiata a me. Storia dopo storia, ho modificato il mio modo di pensare e di scrivere, tenendo a bada la parte più strafottente del mio carattere per sviluppare quella più intimista. E così ho capito alcune cose che ignoravo.
La prima è che niente consente di affrontare i tempi essenziali della vita senza il coraggio e
l’amore di sé. La seconda è che ho scoperto l’efficacia farmacologica della parola scritta. Mi piace questa cosa che molti si prendono la briga di scrivere a una sconosciuta di cui in qualche modo si fidano per riuscire a parlare finalmente con sé stessi. Da anni si sta censurando il Bene, tutto il Bene che leggo tra le righe dei commenti sulle mie pagine Facebook, dei messaggi privati che ricevo, dei pensieri che animano questo giornale. Non è vero che l’Italia è solo sopraffazione, egoismo e prepotenza. Non è vero che siamo solo ottusi, che ci interessano solo i soldi e non sappiamo più cosa siano i sogni.
Chi mi scrive e scrive qui dentro a queste pagine è lì ad urlare che esiste un mondo diverso. Intriso sì di sofferenza ma anche di slancio e speranza. Vi si respira la voglia di conoscere, di ridare voltaggio ai sogni, di respirare emozioni. Tutto questo in una Nazione vigliacca, opportunista e compromessa.
Io nella possibilità di crescita dell’Essere Umano un po’ ci credo ancora. E questa pagina è il resoconto parziale del viaggio compiuto fino a qui. Ne viene fuori, senza volerlo giuro, una specie di Manifesto dell’Umanità, che poi tanto male non è.
Poi c’è tutta la quotidianità, di tutti i colori, ma la cosa più importante che ho imparato in questi anni e che ho affinato con le mie esplorazioni nei luoghi abbandonati è questa: nella vita è facile sentirsi soli, anche in mezzo a una folla, in piena frenesia. Ma la solitudine è una forma di intimità, è uno spazio di introspezione che a volte è necessario e che dovremmo volerci più bene da soli, prima di far dipendere il nostro umore da quello che ci vogliono gli altri.
Siate Felici.
Ancora Vostra,
Jù.
Jussin “Jù” Franchina. Narrastorie di luoghi desueti e abbandonati. Fabbricante di racconti e canzoni per sé e per altri. Odia i piccioni e la gente che urla. La potete seguire sulla sua pagina Facebook @IoLaJu.