La Zona di Alienazione e i Liquidatori
“La Zona”, come viene abitualmente chiamata – inizialmente un’area circolare di 2800 m2 allargata poi a 4300 -, ha per epicentro il luogo dell’esplosione, è divisa in anelli concentrici proporzionali al grado di contaminazione e attualmente misura un raggio di 30 km. Il confine è oggi presidiato da forze militari, al fine di impedire l’accesso a curiosi, cacciatori di rottami o responsabili di altri atti di sciacallaggio. Alcuni scienziati che effettuano ricerche non autorizzate adottano il soprannome di stalker, dall’omonimo film di fantascienza di Andrej Tarkovskij del 1979, a sua volta tratto dal romanzo Picnic sul Ciglio della Strada (Picníc na Obócine, 1972) dei fratelli Strugackij.
Le autorità locali ammettono l’esistenza di siti di stoccaggio non mappati e focolai di combustione, presenti solo nelle ricostruzioni dei liquidatori, termine collettivo usato per indicare coloro che hanno lavorato alla bonifica della centrale: un totale di circa 800.000 uomini e donne tra personale dei reattori, vigili del fuoco, protezione civile, personale medico e paramedico, militari e civili addetti al risanamento della zona, lavoratori edili impiegati nella costruzione del sarcofago, pattuglie che garantiscono un accesso controllato al complesso, addetti ai trasporti, minatori in servizio alla bonifica delle acque contaminate.
Dati non ufficiali indicano che almeno 25.000 di loro sono morti a causa di patologie da radiazioni. Secondo l’associazione liquidatori, la “Chernobyl Union”, dopo vent’anni dalla catastrofe si contano addirittura 60.000 morti e 165.000 disabili.
Città fantasma e Dubovy Log
Dopo oltre vent’anni dalla catastrofe, Pripyat è una ghost town che sopravvive solo su internet:www.pripyat.com. Negli edifici che ospitavano gli abitanti di questa fiorente città-satellite le finestre non hanno più vetri, tutte le porte sono state divelte e le abitazioni saccheggiate; case, scuole e piazze testimoniano ancora un esodo improvviso: scene di vita quotidiana cristallizzate nel loro ultimo atto e coperte di polvere. Le strade, in parte sbarrate, sono inutilizzate dal 1986 e alcune piante sporgono dall’asfalto.
Dopo vari anni sono rispuntati i gatti: subito dopo il disastro, non nascevano più cuccioli maschi e i felini erano praticamente scomparsi.
Tuttavia, circa 210.000 persone sono tornate a vivere nelle aree meno a rischio e, nonostante i controlli, almeno 400 nell’area di Pripyat. Sono i cosiddetti samosieli, “coloro che vivono da soli”: coltivano la terra ancora contaminata, ne mangiano i prodotti e bevono l’acqua dei torrenti. Per scaldarsi, bruciano legna radioattiva nella pjechka, la tradizionale stufa russa, che emette calore e radionuclidi come una Chernobyl in miniatura. E poi seppelliscono, come vuole la legge, la cenere nei campi da coltivare.
Diversa la sorte della città di Chernobyl: vecchia di ottocento anni, nonostante il disastro è riuscita a sopravvivere, e attualmente ospita sia il personale impegnato nella rimozione delle scorie nucleari sia un nucleo di abitanti, soprattutto anziani, che sono tornati nelle loro case nonostante il pericolo. Nel 1988 era stato proposto l’abbattimento di parte della città per limitare l’inquinamento radioattivo, ma il progetto fu abbandonato a causa dell’enorme quantità di particelle che si sarebbero liberate nell’aria dalle macerie.
Alle conseguenze della catastrofe si aggiunge lo spettro di una situazione economica preoccupante. Chiusa la centrale, spariti i posti di lavoro, la zona contaminata è diventata meta di gite turistiche organizzate: queste comitive in pullman, attirate dal teatro della tragedia, sono munite di permessi speciali e all’uscita devono passare un controllo che, se non superato, comporta una doccia contro le radiazioni. Evidentemente l’emozione di mettere piede nella polvere contaminata e penetrare negli edifici in cui la maggioranza degli abitanti non ha osato tornare è più forte di qualsiasi cautela.
La radioattività non si vede. Il cielo, l’aria e l’acqua hanno gli stessi colori di sempre, e la gente cerca di sopravvivere e di non pensare. Ci sono kholkoz come quello di Dubovy Log (Bielorussia, provincia di Dobrush) che sembrano oasi naturali: boschi di abeti e betulle, campi coltivati, cicogne e animali selvatici. Però qualcosa stona: una sbarra che vieta l’accesso ai non abitanti, cartelli dove si legge “vietato cogliere funghi, bacche, pescare, asportare legname”. Infatti qui il grano coltivato è talmente avvelenato che ricavarne il pane è un’utopia, il latte prodotto viene portato altrove per diventare “radioattivo secondo norma”, le case per gli sfollati costruite subito dopo l’incidente non sono mai state consegnate.
I volontari hanno però il permesso di abitare qui, anche se le autorità ufficialmente vietano la residenza. Perché questo è il luogo più contaminato di tutta la Bielorussia.
La Foresta Rossa e dintorni
La cosiddetta Foresta Rossa (Rudij Lìs in ucraino, Ryžij Les in russo), situata 2 km a Ovest dell’ex-centrale, era nota prima dell’incidente come Foresta d’Assenzio (čornobil in ucraino, černobýl in russo, è un termine popolare che indica proprio una pianta del genere Artemisia). Su questo nome sono fiorite associazioni inquietanti con le immagini bibliche dell’Apocalisse di Giovanni.
Nei giorni immediatamente successivi all’incidente, circa 400 ettari di bosco – per lo più pini scozzesi – furono colpiti in pieno da una delle scie radioattive, e assunsero un’intensa colorazione rosso ruggine prima di seccare: il fall-out rilevato da un’apposita commissione nel settembre 1990 (First International Conference on the Biological and Radiological Aspects of the Chernobyl Accident), risultò essere pari a 4,81 GBq/m2. Oggi la Foresta Rossa non esiste più, e al suo posto si estende un’area spoglia e segnata dalle cicatrici della successiva bonifica. L’urgenza spasmodica di arginare il disastro portò a scelte forse inevitabili ma sicuramente infauste: la maggior parte degli alberi morti fu sradicata e sepolta in lunghi fossati, dai quali la contaminazione radioattiva filtrò nelle falde acquifere sottostanti.
“Il terzo delle acque amare” di biblica memoria costituisce effettivamente un dato realistico.
Tuttavia, la vita non si è estinta: piante e animali selvatici, spesso deformi e mutati, hanno preso possesso di quest’area libera dalla presenza dell’uomo, per il quale, evidentemente, gli effetti delle radiazioni sono molto più letali. Ciò che veramente si cela in questo che rimane uno dei siti più contaminati della Terra, è tuttora oggetto di studi: nel numero di novembre-dicembre 2006 della rivista American Scientist, Ronald K. Chesser e Robert J. Baker affermano che “è difficile dare un senso preciso ai dati per poter giungere a conclusioni sicure, e ancora oggi non è possibile fare un accurato bilancio delle malformazioni causate dall’incidente”.
A volte è difficile separare la verità dalla paura: non ci sono prove di piante completamente bianche e con la clorofilla rossa, di strani fiori dai colori mai visti o di insetti giganteschi, come raccontano alcune testimonianze. Eppure, i pochi dati oggettivi raccolti sono quanto meno inquietanti: alberi trasformati in arbusti striscianti e contorti (secondo James Morris, biologo, non sarebbero più in grado di determinare la corretta direzione di crescita), pini dai germogli lunghi fino a 14 cm a causa del radiomorfismo, uccelli senza piume caudali, colonie di alci, cavalli, lupi e altri mammiferi nei quali sono state registrate significative mutazioni del DNA. Un trionfo della natura, le cui caratteristiche sono tuttavia molto diverse dalla quella che viene considerata una normalità di specie.
Rondini albine, puledri le cui zampe si biforcano sotto le ginocchia, maiali senza occhi e vitelli a due teste sono stati le espressioni più eclatanti, ma non sempre l’immediata evidenza costituisce il problema principale: se alcuni scienziati scorgono una positiva rinascita di questo luogo in cui l’uomo non è più la specie dominante, altri sospettano che la vera eredità di Chernobyl sia ancora da svelare.
Fine terza parte
Fonte Vikipedia