Ci sono particolari situazioni in cui gli italiani dimostrano incredibile incoerenza. Dicono di volere il cambiamento e nel momento in cui questo appare, a parole, non va bene. Gli esempi piovono a bizzeffe. Due esempi lampanti sono nelle privatizzazioni e nelle liberalizzazioni. Dal mio punto di vista la concorrenza è l’arma migliore a disposizione del consumatore, a patto che non sia “modificata” dalla presenza di sussidi, aiuti di Stato, eccetera. Nel mercato vince chi offre il miglior rapporto qualità/prezzo. Non è infatti estremamente comodo passare da un operatore di telefonia mobile ad un altro? Oggi A, domani B. Chi mi offre un servizio migliore, vince. Semplice.
No, in Italia è semplice solo sulla carta. Il privato è ancora visto come il “cattivo” della situazione. Come se il pubblico facesse piovere oro. No, nella stragrande maggioranza delle imprese pubbliche, soprattutto quelle in cui la politica esercita un ruolo direzionale diretto, piovono debiti e risultati negativi. Ma, ancora una volta, guai a nominare la parola “privatizzazioni”. Eppure un intervento da parte di imprenditori privati porterebbe a nuovi capitali, nuovi investimenti e servizi migliori. Finché lo Stato (e le sue imprese) si trovano in una situazione di monopolio, in cui sono gli unici a poter offrire un determinato prodotto/servizio, che senso ha effettuare miglioramenti? Nessuno fa loro concorrenza e a vincere è sempre lo stesso. E nonostante ciò si ottengono risultati negativi. La domanda sorge spontanea. Dov’è la falla nel sistema? Dove si trova questa enorme emorragia che drena risorse? La spesa pubblica italiana ammonta a circa 800 miliardi. OTTOCENTOMILIARDI DI EURO. Come questi vengano spesi non ci è dato sapere. Non con precisione, almeno. Sappiamo che la macchina statale è grande, ingombrante, inefficiente ed inefficace, con enti inutili e doppi. Sappiamo che ha bisogno di profondi tagli, anche di personale, ma che esistono ancora resistenze notevoli da parte dei sindacati. Gli stessi che se la prendono con gli imprenditori perché se ne vanno all’estero, e non si domandano mai per quali motivi questi se ne vanno. Perché per un annetto non provano gli stessi sindacati ad investire il proprio denaro in un’attività imprenditoriale? E provano cosa significhi trovarsi dinnanzi a imposte e tasse. Queste ultime, tra l’altro, non sono la stessa cosa, quindi quando vi dicono che “non aumenteranno le tasse”, non vi stanno dicendo che alla fine non si pagherà di più, ma che una particolare categoria di tributi non verrà toccata. Forse.
Negli ultimi tempi si parla della protesta per la tutela del “Made in Italy”. Anche qui ci si sveglia in ritardo. Un ritardo colossale. Gruppi di agricoltori erano andati nello stesso luogo anni fa, ma, ahimè, non avevano il supporto della maggiore associazione di rappresentanza dell’agricoltura italiana. E non diciamo che è stato scoperto solo ora. Tanto per fare un esempio, si sa da anni che latte straniero varca il confine e magicamente diviene italiano. Ma questo la dice lunga sull’influenza internazionale del Bel Paese, che si è ridotta fino a confinarci al rango di provinciali lontani dai luoghi che contano. E non serve a nulla “battere i pugni” finché girate le spalle il resto del mondo RIDE DI NOI. Delle nostre incoerenze, dei nostri errori, del nostro ritardo, delle nostre occasioni perse, della nostra inspiegabile rassegnazione. Un popolo pieno di ispirazione, storia, arte, cultura e ingegno che si lascia prendere dallo sconforto nel momento in cui avrebbe bisogno di un colpo di reni per dimostrare che le cose belle, buone e di qualità portano ancora il marchio del tricolore. Il nostro tricolore. Invece ci accontentiamo di una politica mediocre, di riforme promesse e mai fatte, di sprechi, di inchinarci al politico di passaggio pur di avere facilitazioni e una bella pacca sulla spalla.
Basta così. L’Italia è un territorio fragile, fragilissimo, ma ricco di idee, di speranze, di opportunità. Forse è arrivato il momento di pretendere di più. Dalla politica, a tutti i livelli, dalle persone, dalle istituzioni. E iniziamo a pretendere di più anche dagli stessi cittadini, che potrebbero far sentire la propria voce in mille modi, ma, tipicamente italiano, alzano le spalle e pensano che se ne occuperà qualcun altro, che tanto non cambia nulla, che non c’è niente da fare. Basta. Si può fare. Si può cambiare, ricominciare, ripartire. Firmiamo le proposte di legge, i referendum, le petizioni.
Un esempio? E’ attiva la campagna “Non più in alto del Colle”, con cui promuovere una legge affinché nessun dipendente pubblico possa ricevere più del Presidente della Repubblica. Napolitano percepisce circa 240.000 euro all’anno. Eppure ci sono figure nella macchina statale che lo superano: il Ragioniere Generale dello Stato (circa 562.000), il Capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (circa 543.000), il Direttore generale del Corpo Forestale (circa 362.000), il Presidente autorità Energia e Gas (circa 475.000) e molti altri, tra cui i vertici della Corte Costituzionale che, fino ad ora, hanno rilevato l’incostituzionalità degli interventi in questa direzione. Sono relativamente “piccoli” risparmi, ma sarebbe un inizio, un freno all’inarrestabile emorragia che sembra aver colpito i bilanci pubblici. Forse non andrà tutto a buon fine, molte campagne sono state vane, ma essere dalla parte che ha perso, non significa essere dalla parte sbagliata.
Paola B.