Vorrei raccontare la mia esperienza con l’autismo perché non bisogna aver paura né di sapere né di affrontarlo. La diagnosi precoce fa la differenza e conoscere strategie adeguate permesse a noi e ai nostri figli di vivere meglio. Il vero rapporto con mio figlio è iniziato quando aveva due anni e mezzo, ovvero dopo la diagnosi e le prime indicazioni dello staff medico che ci ha seguiti in questo percorso. Nonostante mio figlio avesse, per il pediatra, uno sviluppo normale (prime parole, camminare) io mi ero resa conto che c’era qualcosa che non andava. Mio figlio preferiva gli oggetti ai suoi genitori. Quando ha iniziato a muovere i primi passi preferiva appoggiarsi al divano che camminare dando la manina ai suoi genitori; preferiva far cadere a terra la biciclettina e far girare le ruote e guardarle piuttosto che giocare a palla con il papà. Fino a due anni e mezzo Giuseppe comunicava con noi le sue esigenze con parole singole e gli unici giochi che potevo fare con lui era il solletico e il verso degli animali quando cantavo nella vecchia fattoria. Quando a un anno è andato al nido ho chiesto alla maestra se notava dei problemi ma Giuseppe appariva un bambino molto vivace e furbetto, che voleva far sempre di testa sua e che, spesso, quando lo si richiamava non rispondeva e che anche se alcuni obiettivi non erano stati raggiunti occorreva osservarlo l’anno successivo ma niente di che preoccuparsi.
Io però vivevo da schifo, mi sentivo una pessima madre che addossa a suo figlio problemi che non ha, solo perché non riesce a comunicare con lui. Con chiunque ne parlassi, marito compreso, ero esagerata, non avevo pazienza, il piccolo era sveglio e furbo. Solo non riuscivo ad andare nemmeno al parco giochi con mio figlio perché si spostava da un gioco all’altro, correva così velocemente e senza ascoltare nessuno, quante volte ho detto: “Giuseppe, Giuseppe, attento ti fai male, scendi, vieni qua.” Niente, niente, non si girava nemmeno. Dopo la diagnosi io e mio marito abbiamo preso consapevolezza dei limiti di nostro figlio, tante domande hanno avuto risposta. Poi già con le prime indicazioni dello staff medico che ci ha seguiti nel percorso diagnostico, abbiamo imparato ad agganciarci ai giochi di nostro figlio, gli abbiamo insegnato, non senza fatica, ad indicare gli oggetti. Adesso Giuseppe fa terapia ABA, comunica con noi, risponde al suo nome (a volte dobbiamo chiamarlo tre volte, ma alla fine ce la facciamo) e alle nostre domande se riguardano il contingente, frequenta la scuola materna, seguito da una educatrice, gioca con i suoi coetanei e nel complesso riesce a rispettare le regole. Penso sempre di non fare abbastanza per mio figlio, perché la terapia va continuata nella vita quotidiana e, a volte, credo di non dedicargli abbastanza tempo. Adesso sappiamo. Per giocare con lui occorre insegnargli il gioco,ogni singolo gioco. A mio figlio non basterà mai guardare gli altri per imparare, anche se lui è molto attento agli altri (cosa non comune per bambini con questo disturbo), non riesce a seguire da solo tutti i passaggi. Ad esempio quando giocava con i bambini a nascondino gli era rimasto in mente solo che doveva contare e girarsi, non correva a cercare i bimbi nascosti e stava lì. Così ci siamo messi tutta la famiglia step by step . Prima mio marito lo guidava e io restavo nascosta finché non mi trovavano, così dopo diverse volte ha capito questo passo, poi è stato il momento di capire come si vince. E così per tutti i giochi che impara. Adesso vuol giocare alla tombola degli animali, ha già imparato che deve pescare una tesserina, che deve dire ad alta voce il nome dell’animale ma non basta, bisogna consegnare la tesserina a chi ha nel cartoncino grande lo stesso animale. Adesso ci resta da capire come si vince.