Una storia sussurrata
a piccoli passi.
Siamo nel 1998. Ora mi sono abituata ma è stato difficile.
Maria diventa sempre più chiusa, se qualcuno viene a casa diventa difficile trovarla.
Si nasconde e se la trovi, la devi prendere in braccio con il suo lenzuolino sulla testa. Da poco le è stato regalato un piccolo pupazzo, un procione bianco e nero pieno di caramelle. Il pupazzo è molto brutto e di bassa manifattura. Per nasconderlo,decido di metterlo in un armadio prima di buttarlo, ma prima glielo mostro e gioco con lei. Maria il giorno dopo lo prenderà dall’armadio per non lasciarlo mai più. Questo pupazzo diventerà per me e per lei importantissimo poiché per anni ci darà la possibilità di comunicare.
La pancia del peluche una volta svuotata dalle caramelle accoglierà la mia mano. Come una burattinaia lo farò muovere e gli darò la voce. Il procione inizia a parlare dicendo sempre: “Ciao Maria…” sempre, con la stessa cadenza, tonalità e con una vocina artefatta che diventerà il doppiaggio della voce del procione di stoffa chiamato “sophia”: un allenamento che andrà avanti fino all’età di dieci anni. Un modo per non smettere mai di parlare. La ginnastica della parola, l’allenamento della speranza.
La ginnastica della parola,
l’allenamento della speranza
Un giorno mentre ero in cucina Maria mi chiamò due volte. Corsi velocemente da lei. Mi disse sottovoce che non riusciva più ad alzarsi in piedi.
Era seduta sul pavimento della camera e voleva che la prendessi in braccio. Credetti fosse uno scherzo poi pensai che fosse caduta. Ma nel sollevarla capii che c’era dell’altro poiché non appoggiava le gambe sul pavimento ma tendeva a piegarle. Corsi in ospedale con lei in braccio. Gli accertamenti nel reparto di neuropsichiatra infantile furono piuttosto veloci e basati più che altro, su domande finalizzate all’anamnesi familiare. Ascoltavo la dottoressa ma nel frattempo mi venivano in mente i due bambini del 1966, il film visto in gravidanza, le segnalazioni fatte alla pediatra.
La voce della dottoressa si allontanava e nella mia mente prendeva voce, quella del mio pensiero preoccupato.
Un lungo silenzio e poi interrompendo bruscamente il discorso, feci una domanda trattenendo il respiro: “Mia figlia è autistica?”
Mia figlia è autistica?
Impietrita davanti alla dottoressa attendevo la risposta, finché lei mi chiese il perché di quel sospetto. Le risposi che avevo letto molto circa questo disturbo e ritenevo che alcuni comportamenti di mia figlia rientrassero in quelli letti. Guardandomi rispose che non lo escludeva e mi suggeriva di eseguire accertamenti specifici. Mi consigliò di tenerla monitorata e di controllare l’andamento del disturbo.Maria migliorò nell’equilibrio ma non nell’interazione. Tornai nel reparto di neuropsichiatria infantile con una richiesta di prima visita. Solo dopo mesi riuscì a parlare con un medico supponente ed impreparato che brancolava nel buio. Analizzata la bambina con i soliti test mi comunicava che non riusciva a capire la natura del disturbo.
Mi suggeriva invece, le cure private di un collega che avrebbe curato la bimba attraverso alcune sedute di psicoterapia mirate. Il tutto per soli quaranta milioni delle vecchie lire. Chiesi al medico se avesse mai sentito parlare di parole come “Autismo” o “sindrome di Asperger”. Lui rispose che lo studio dell’autismo non era la sua specializzazione e che la “Sindrome di Asperger” non l’aveva mai sentita nominare forse perché, si era laureato prima del 1995 e non aveva assistito a corsi di aggiornamento specifici sul l’autismo o sindromi correlate. Presi Maria in braccio salutando l’inventore di soluzioni prezzolate mentre, non ero già più in quella stanza di bugie e supposizioni. Ero già alla ricerca di altre strade.
continua-4