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ARTURO E CARLOTTA (1^parte)

Lui era di quei tipi di età indefinita, con la faccia piena di rughe, che al sesso quasi non pensava più. Lei voleva attenzioni e diceva che ogni tanto le piaceva sentirsi viva. Si erano conosciuti mezzo secolo prima, in una torrida estate gioiosa e giocosa si scambiarono i primi baci adolescenti, all’ombra di una chiesa di campagna. Poi le loro strade si divisero, e fu meraviglioso per Arturo, mezzo secolo dopo, davanti a un caffè, scoprire in Carlotta una donna matura, determinata, realizzata e sicura di sé. Carlotta amava ancora giocare, sorridendo e facendo le linguacce come quando era bambina, come quando lui le stringeva le guance tra le mani. I suoi occhi conservavano la luce dei tredici anni, come se il tempo si fosse cristallizzato in un’immagine viva, che si rifletteva negli occhi fangosi di lui.
Era un tipo strano, l’Arturo, segnato da un passato burrascoso trascorso perlopiù all’osteria, bruciando buona parte della sua eredità in stravizi. Dopo che sua moglie era morta giovanissima, aveva avuto un paio di relazioni turbolente, spesso a causa sua, e i sensi di colpa lo perseguitavano, così aveva deciso di sottrarsi al suo destino per rinchiudersi in un ermetismo fatto di poche parole, di gesti sempre uguali, di un piacevole ozio che gli permetteva di concentrarsi e scrivere racconti e poesie che nessuno leggeva. Aveva un cane, vecchio come lui, che adorava e al quale faceva da badante, lieto di poter restituire finalmente una coccola a chi gliene aveva fatte una montagna. Quando lo portava al parco si guardava in giro, osservando ogni particolare di ciò che aveva intorno, e si divertiva a scribacchiare appunti su una vecchia agenda, poi li rielaborava di notte tra un whisky e un toscano e li rifiniva la mattina al terzo caffè, rimestando ricordi e sussurrandoli in punta di dita sulla tastiera della sua macchina da scrivere.
Quando si rividero, una fresca mattina di ottobre, Carlotta gli raccontò buona parte della sua vita parlando per ore come un fiume in piena che lo stordiva, abituato com’era al silenzio monastico della sua stanza in affitto dove si era ritirato e incontrava solo qualche amico ogni tanto per discutere di politica, e si accorse che lei lo stava ipnotizzando con i suoi occhi di smeraldo, nei quali intravedeva serenità circondata da un alone di mistero ed attrazione. Ad ogni parola affiorava un ricordo, quasi come se, per cinquant’anni, lui avesse visto il mondo attraverso una rete a maglie così fitte che tratteneva anche i pensieri, come se avesse osservato per tutto quel tempo un mondo antico coperto dal bianco lenzuolo del sonno. E così, tra un caffè e l’altro, nell’arco di un paio di mesi Arturo la baciò. Erano secoli che non si sentiva così attratto da una donna, e ora era lì, a portata della mano che lui le stava porgendo camminando tra le viuzze della cittadina, percorse dalle folate di tramontana che proveniva dal lago.
In due, nella fredda alba di un giorno di dicembre, camminavano sulla spiaggia abbracciandosi con la scusa del freddo, e battevano le mani per far alzare in volo i gabbiani, e si raccontavano le loro storie a vicenda, e si toglievano la sabbia dagli stivali scuotendoli sul bordo del muro e riempivano il baule della macchina di conchiglie raccolte per chissà quale motivo, forse per seminarle sulla strada, come Pollicino, nel caso si perdessero. Non desideravano altro che godersi il tempo che il fato aveva loro riservato. Mentre si apprestava ad entrare nella vasca colma di acqua calda, la mattina dell’ultimo giorno dell’anno, Arturo aveva ricevuto una telefonata. Di malavoglia, con un groppo alla gola, aveva bevuto un caffè amaro, si era rivestito ed era uscito, turbato. Mentre percorreva la strada verso l’ospedale si ricordò del vecchio monaco buddhista che aveva conosciuto anni prima, delle notti passate a meditare con lui, e gli tornò alla mente, vivido, l’insegnamento del Cobra. Il monaco gli aveva infatti raccomandato di trattare ogni suo stato d’animo, ogni cosa gli si fosse affacciata alla mente, come avrebbe trattato un cobra: non infastidendolo, lasciandolo andare.
“Un cobra non è né buono né cattivo, segue la sua natura, e come ogni cosa nasce e muore, sorge e tramonta. Se non lo infastidisci, se non cerchi di afferrarlo, se ne va senza farti del male. Il male e il bene non esistono, esiste l’alba ed esiste il tramonto, esiste la nascita ed esiste la morte, e starà a te cercare di riempire il tempo che sta in mezzo con tutto ciò che è buono. A ogni tramonto segue un’alba, in un ciclo infinito, molte volte al giorno. Per ogni tuo stato d’animo, per ogni cellula del tuo corpo non esistono che nascita e morte. Sofferenza che nasce e sofferenza che muore, è tutto qua.”

Se lo ricordava bene Arturo, quell’insegnamento, ma raramente riusciva a metterlo in pratica: lui spesso si avvinghiava ai suoi stati d’animo, quali che fossero. In modo particolare amava e quasi godeva della tristezza, la sola cosa che desiderava era rendersi invisibile e non rideva di gusto da tempo immemore.
Parcheggiò, buttò una sigaretta consumata a metà, ed entrò all’obitorio. Guardando il corpo di Fausto, gli sovvenne che proprio lui era uno dei pochi che lo aveva fatto ridere fino alle lacrime, salate come quelle che stava ingoiando in quel momento. Quando Fausto veniva a trovare i suoi genitori, nei pigri pomeriggi estivi della pianura, la vecchia casa dove all’epoca abitava sembrava prendere vita. Era in gamba, Fausto, sapeva imitare il verso di molti animali, e Arturo ne era affascinato. Arrivava con una station wagon lunga un chilometro, quando al paese circolavano solo utilitarie, lo caricava nel baule e lo portava a spasso per le campagne della pianura, raccontandogli storie assurde, sempre ammantate di mistero. Arturo era dispiaciuto, per quella sua gamba martoriata, ma come ogni bambino era anche curioso e un po’ irriverente, così gli chiedeva spesso di mostrargli le cicatrici di quel brutto incidente e di raccontargli com’era successo, e ogni volta Fausto inseriva nel racconto qualche particolare, lo faceva volare con la fantasia sulla sua Guzzi Rossa fino a duecento all’ora, e gli raccontava di come fosse al limite quando sbucò quel trattore proprio dietro la curva, e in alcune notti senza luna, Arturo nei suoi sogni cadeva con lui, con i suoi ricordi, con le sue paure.
Fausto aveva combattuto come don Chisciotte per la sua Dulcinea quando si era innamorato, a Saint Marie le Mere, di una gitana spagnola di nome Milena. Ci era abituato, Fausto, alle battaglie, fin da bambino era stato preso in giro dai compagni di gioco per via delle sue manie e dei suoi tic. Ogni tanto faceva dei versi, talvolta come una scimmia, talvolta come un cucù e i bambini si sa, sono crudeli nella loro innocenza senza veli. Aveva acquisito prestigio in seconda media, quando aveva radunato i compagni nel boschetto dietro l’oratorio e aveva sterminato ventidue lucertole con una carabina ad aria compressa in poco meno di dieci minuti, allineandole poi sulla soglia del cancello che lo separava dal prete furibondo. Poi aveva combattuto le battaglie dell’incidente, da cui era uscito vivo per miracolo ma che lo costrinse a zoppicare vistosamente per il resto dei suoi giorni. E alla fine aveva vinto e a dispetto di tutti se l’era sposata, Milena la gitana. Da quando era morta, sette anni prima, Fausto si era chiuso in un ostinato mutismo, una sorta di auto-esclusione dal mondo, che per lui ruotava ormai solo intorno a Giorgina, una malandata gattina con la quale faceva lunghe chiacchierate sicuro che lei non avrebbe rivelato a nessuno i suoi segreti.
Davanti al suo corpo, da solo, Arturo prese a parlargli a bassa voce, cercando una scusa per chiedergli scusa. Scusa per il tempo che non gli aveva dedicato, per averlo nascosto nel labirinto dei suoi confusi ricordi, per non sapere che adorava i gatti e ne aveva tre, scusa per non averlo capito, per non avere sussurrato al frate, che era entrato nella stanzetta per imbastire l’omelia del funerale, che Fausto il funerale non lo voleva, che era un vecchio anarchico senza dio né padroni, e che il suo massimo desiderio era spegnersi lontano, in riva al mare, guardando il sole che sorgeva. Gli sfiorò la fronte ormai fredda con le dita, poi uscì e guardò il cielo plumbeo, carico di neve. Pensò a Carlotta e le mandò un sms: “Ti bacio da qui.” Fu divertente pensare che l’ultima volta che era stato innamorato, una lettera impiegava una settimana ad arrivare, mentre ora un sms in meno di un secondo era al destinatario. Era quasi ora di pranzo e Arturo si ricordò che aveva il frigo vuoto, quindi tanto valeva andare a mangiare un boccone dal cinese, che era anche comodo per parcheggiare. Così salì in macchina e si diresse verso la friggitoria. Arrivato a destinazione, scorse un barbone che sostava rannicchiato, invisibile ai più, proprio nell’androne accanto all’entrata. Si fermò davanti a lui, lo guardò per qualche secondo poi gli si sedette accanto. Gli chiese se andava tutto bene, e l’uomo rispose che era tutto a posto, che si stava solo riposando un momento, visto che la strada era in salita. Passarono in silenzio il tempo di una sigaretta fumata insieme, guardando l’insegna della friggitoria che luccicava a pochi passi, poi Arturo si alzò ed entrò. Uscì pochi minuti dopo con due bollenti vaschette di spaghetti di soia, ne porse una all’uomo nell’androne, si sedette e mangiò con lui. “Godi delle piccole cose, dei momenti passati in silenzio, del sorriso di cacao sulla schiuma di un cappuccino, godi per un paio di labbra disegnate, per occhi che ti vedono più bello di come sei in realtà, per monete buttate nel pozzo dei desideri, per i momenti di gioia, godi della vita che come un romanzo si svolge nel ritmico tintinnare dei secondi che passano”, si appuntò sull’agenda, poi accese il motore e partì. Tornato a casa si versò un whisky, poi si appisolò vestito sul divano.
Sognò montagne di sale che come una diga fermavano il mare sul bordo delle ciglia. Riflessi d’oro e marrone che si mescolavano, annichilendosi in rutilanti e variopinte bestemmie. Oro e marrone, oro antico. Sognò prati e fossi e una grande nevicata, fuori.
Stava bene fuori, senza affanni, fuori da dentro, con i grilli che amoreggiavano e la luce rossa che scacciava le zanzare, fuori a guardare la luna con l’acqua che scorreva come un fiume d’oro che lo portava via. Fuori con un ombrello, a raccogliere fulmini. Fuori con una brace che ardeva. Fuori con un gatto che passeggiava. Sognò che volava e afferrava un boccone, lo masticava e si accorgeva che non aveva sapore. Tutto troppo di fretta, inquinato, un po’ stantìo, come un quartino di vino rosso stappato e ritappato troppe volte. Sognò di sentire travolgenti suoni gutturali, immerso in una stolta allegria, come se mancasse qualcosa. Nuvole basse sull’orizzonte troncavano i pensieri come un machete la foresta. Sognò sette miliardi di poesie declinate ognuna nel suo idioma, sette miliardi di mondi, ognuno col suo pulcioso paltò, per proteggersi come meglio poteva dai guai che la vita gli propinava. E in mezzo a tutto una carrozza con grandi ruote di legno e un telone bianco, in una pianura soleggiata, circondata da roulotte abbandonate, teli di plastica a fare un po’ d’ombra e i copertoni a tenere assieme quelle piccole cose. Sognò rutilanti cieli saturi di idrocarburi che eruttavano cenere e lapilli, e lesse il libro della sua storia.

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Massimo Zucca

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