Ci sposammo e vivemmo insieme settant’anni, / stando allegri, lavorando, allevando i dodici figli…/ A novantasei anni avevo vissuto abbastanza / e passai a un dolce riposo. / Cos’è questo continuo lamentarsi di dolori e di stanchezza, / di ira, di scontento e di speranze fallite? / Figli e figlie degeneri, / la vita è troppo forte per voi: / ci vuole vita per amare la Vita! Capita anche a me, quando ritorno nel piccolo camposanto di un paesino della Brianza ove sono sepolti i miei genitori, di passare lentamente per i vialetti, leggendo certe epigrafi e risalendo ai volti noti della mia infanzia. È quello che aveva fatto anche il poeta americano Edgar Lee Masters, immaginando per ognuna delle lapidi di un cimitero del Midwest un epigramma che raccontasse tante micro-storie con le loro grandezze e miserie, la generosità e l’ipocrisia, le verità e le menzogne. Nacque, così, quell’Antologia di Spoon River (1915) dal successo folgorante. Ed è nelle sue pagine che sono andato a cercare l’autoritratto di una certa Lucinda Matlock, le cui parole semplici sono un monito anche per «i figli e le figlie degeneri» che siamo noi, pieni di scontento, di proteste, di pretese, di insoddisfazioni. Lucinda s’era innamorata del suo Davis e per settant’anni aveva condotto con lui un’esistenza modesta ma serena, piena di cose quotidiane ma amate con intensità. Ed ecco la sua lezione: per amare la Vita (si noti la maiuscola!) è necessario viverla in pienezza, anche nelle sue ombre, nelle sue tempeste, nelle fatiche. «Voi siete troppo superficiali – ripete questa vecchia mamma – e non sapete vivere questa Vita forte eppur bella, severa eppur affascinante».
Un grazie a Nonna Grazia