Un adolescente se ne va, un figlio di tutti noi è rimasto attaccato ad una sciarpa legata al collo, impigliato senza potere reagire né difendersi. E’ morto così, ma non per sua scelta, impiccato con le nostre mani, i nostri giudizi affrettati, sommari, e somari quanto i nostri silenzi indifferenti.
Un ragazzino di quindici anni reso diverso dalla sua fisicità esile, dalla sua presenza fragile, forse un chiacchiericcio inventato ad arte sulla sessualità non “conforme” ai tanti, un giovane diverso perché messo intenzionalmente alla berlina, volutamente collocato tra i pochi che sono minoranza da deridere, per un sollazzo simile alla malattia della violenza, ben definita “patologia della diversità” che fa ingiustizia e differenza, imparata e tramandata da padre in figlio, da macho a macho, da chi premeditatamente addita e condanna senza possibilità di appello. Un ragazzino ha preferito l’oblio allo sberleffo quotidiano, alla viltà asimmetrica che distorce le passioni, le emozioni, gli affetti, annienta i sogni e le speranze di una vita tutta da vivere nella ricerca di una identità vissuta per davvero, di un ruolo definito, uno stare insieme armonioso e felice, dentro la propria diversità che non è un delitto, né un reato o una offesa per nessuno.
Quell’adolescente sospeso a mezz’aria come uno straccio sporco, al chiodo come un qualsiasi Cristo, non suscita un moto di vergogna, un sussulto di dignità: un rimbalzo di ira per la compassione messa al muro dalle giustificazioni inattendibili, dalle difese improponibili, dalle attenuanti sempre prevalenti alle aggravanti. Tanta ingiusta indifferenza non scalza le responsabilità, le disattenzioni, il disamore di questa irrispettosa dipartita, poco importa se ognuno afferma che il ragazzo non era gay, non era quello il motivo per cui è andato a morire. E’ incredibile come anche di fronte alla morte di un giovanissimo c’è l’urto e il fastidio della negazione alla negazione, come a dire che non può esistere una cosa del genere, che qualcuno si dia la morte per sessualità diversa dal corpo che lo ospita, che qualcuno muoia per solitudine imposta e costretta all’umiliazione sul banco scolastico, in video on line, nella messaggistica istantanea, un marchio a fuoco per l’inaccettazione più sconsiderata. Gli adolescenti sanno essere pericolosi nel ferire e nel mettere fuori dal recinto un loro pari, per questo sono da seguire e accompagnare: il mondo adulto-educatori-formatori, non può chiamarsi out da questo atto terroristico al futuro di ciascuno, non può pensare di esser escluso dal farci i conti, perché “ non accadrà mai a mio figlio”.
Essere gay non è un artifizio per non risultare un buon cittadino, un buon essere umano, una persona migliore, essere gay è un diritto di ogni persona, una scelta che non fa danno ad alcuno, non segna il passo a chi ha fretta di arrivare, di essere, di avere quanto gli spetta.
La libertà di quello studente è stata messa in croce da un’altra libertà prostituita dalle inadempienze degli esempi sbagliati che non sanno risultare autorevoli, dalle asserzioni bullistiche che affascinano e creano consenso, creando terreno fertile per intendere che “la mia libertà conta, poi viene la tua se rimarrà tempo da dedicarti”.
Esser libero significa ascoltare quanto cresce nel proprio cuore, nel rispetto di te stesso e degli altri, quel rispetto che però è mancato nei confronti di quel ragazzo, quel rispetto che dovrebbe essere insegnato da chi è un esempio, non brevetto depositato dai duri e dai furbi, ma da ogni essere umano, soprattutto di chi è più indifeso e fragile.
Vincenzio Andraous