Questa settimana voglio mettervi a conoscenza di un fatto accaduto tanto tempo fa.
Tengo a precisare che il racconto a seguito mi è piaciuto a prima vista ed ho deciso di trascriverlo così, senza aggiungere nulla e senza nemmeno tentar di spiegarlo. Voglio solo che lo apprendiate così e mi auguro che vi possa aiutare a riporre più fiducia in chi vi sta accanto.
– “Dov’è il lebbrosario?” – chiese Follereau.
– “Un po’ più lontano.
Dobbiamo prendere la piroga”.
Ci arrivarono, infine. Li accolsero 800 malati.
Il capo del villaggio disse semplicemente a quello straordinario ospite che non temeva le distanze: “t’aspettavamo”. Sono vent’anni che nessuno ci stringe la mano. Sarebbe stato bello restare almeno un poco tra quei nuovi amici”, ma altri malati attendevano Follereau.
Bisogna riprendere il cammino.
Nell’oasi di Miria, un paradiso d’acqua zampillante, un uomo si accostò allo straniero reggendo un paniere di cavoli. Aveva perduto tutte le dita e parte dei palmi, ma la sua voce era tranquilla.
Ascolta la mia storia, padre dei lebbrosi, disse: “Tu mi hai pregato di curarmi, ma io non ti ho voluto dar retta. Credevo di saperne di più e quando passava l’infermiera correvo a nascondermi. Così ho perduto le mani ma quando la malattia ha cominciato a radermi i piedi, ho preso paura e sono andato dal medico.
Oggi, come vedi, posso camminare bene”.
“Chi ha coltivato questi cavoli?” – chiese Follereau “Io, padre dei lebbrosi. Tu mi avevi detto che per un uomo il lavoro è molto importante, ma sapessi com’è difficile quando non ci sono più le mani! Il badile mi è caduto cento volte e cento volte l’ho raccolto, ma ho imparato a coltivare i cavoli. Questi sono i primi e li offro a te.
Non ce ne sono di più belli al mondo. Ti sono riconoscente perché mi hai insegnato che sono un uomo come gli altri anche se ho perduto le mani. Lavoro e mi guadagno la vita”. Follereau lo abbracciò. Che altro avrebbe potuto fare?
Stefania