La vita riesce sempre a sorprenderci, stupicirci; i suoi giorni sono carte di un grande mazzo che gli eventi mescolano e distribuiscono durante il nostro cammino.
Il mese scorso mia moglie ha subìto un intervento di protesi totale ad un ginocchio, per la riabilitazione è stata trasferita da Brescia all’ospedale di Leno dove ha avuto come compagne di stanza due Signore alquanto distinte e caratterialmente molto diverse; per le prime due settimane la Signora Laura, abitante a Ghedi, simpatica espansiva, quel tipo di persona che riesce a sorridere anche nelle situazioni più difficili.
Gli ultimi quindici giorni di degenza è stata affiancata dalla Signora Orsola, una donna un pochino più riservata, precisina un po’ in tutte le cose.
Appena entrata in stanza m’ha dato l’impressione di averla già incontrata prima, penso sia capitato a tutti di incrociare una persona per la prima volta ma di avere la netta sensazione di averla già conosciuta precedentemente. Chiacchierando è emerso che abita a Manerbio, gli ho detto che è un bel paesone ma purtroppo il mio ricordo è legato soprattutto ai 5 mesi di degenza che ho trascorso nella pediatria del suo ospedale in seguito ad una grave malattia ai reni di cui ho sofferto tra i nove e dieci anni d’età. Alchè sorridendo ironicamente la Signora m’informa che lei è una ex infermiera professionale nonché caposala del reparto di pediatria dell’ospedale di Manerbio; facendo qualche calcolo anagrafico ne è uscito che quando io ero ricoverato, lei aveva 27 anni e sicuramente è stata una delle infermiere che mi ha seguito durante la degenza a Manerbio.
Ecco perché quando l’ho vista mi sembrava d’averla già conosciuta da qualche parte, i suoi lineamenti, la sua voce, il fatto che si chiama Orsola (come la sorella di mio papà), unico nome che ho tenuto in mente tra tutti i paramedici; quella caposala alta, mora, capelli a caschetto sulle spalle, con quello sguardo sempre un po’ triste; era lì davanti a me cinquant’anni dopo. Non è una cosa straordinaria? La vita riesce sempre a sorprendermi, avevo la possibilità di capire, comprendere la sua velata malinconia che portava negli occhi, e perché i suoi rari sorrisi erano così meccanici, poco spontanei.
Abbiamo cominciato a chiacchierare e subito gli ho chiesto di quella Suora dalla imponente corporatura soprannominata il Fuhrer, comandante assoluta della Nursery e dell’intero reparto di Pediatria; terrore di grandi e piccini, genitori compresi, nonché di tutti i camici bianchi operanti nel suo settore. Una figura impossibile da dimenticare, ricordo che appena arrivato all’ospedale ero talmente debilitato che mangiavo a letto con l’aiuto di un apposito tavolino. A partire dall’ottavo giorno ripresi un po’ di forze, ho iniziato a pranzare assieme a tutti gli altri bambini (eravamo una ventina) in refettorio, mi è rimasto impresso quando una bambina sputò per terra la minestra e la Suora gli mollò un micidiale doppio sberlone (dritto e manrovescio) mandandola a letto senza darle altro da mangiare. Il bimbetto seduto accanto a me (avevamo un’età compresa tra i 6 e 12 anni) mi disse di stare attento a non sfidare mai il “Fuhrer” perché lei parlava poco ma menava molto. Ero rimasto a dir poco sbalordito dinnanzi a quella scena, pensavo a mia zia sorella maggiore di mia mamma (Suor Brunamaria Ghidelli facente parte della Congregazione Sante Dorotee, grazie ad un Miracolo da lei ricevuto, Don Luca Passi fu Beatificato il 13 aprile 2013), che era per me un punto di riferimento, una guida a cui affidare le mie domande riguardanti non solo la fede, ma la vita in generale.Trascorreva sempre nel nostro cascinale i suoi permessi fuori dal convento, la sua presenza era per me una gioia indescrivibile, dialogavamo d’ogni argomento, la sua immensa cultura le permetteva di dar una valida risposta ad ogni mio quesito, sempre con amorevole pazienza; il vedere Suor Agata (questo era il nome della religiosa che la Signora Orsola ricordava benissimo), rifilare un manrovescio ad una bambina mi lasciò sconcertato, mai avrei pensato che una donna di Chiesa potesse arrivare ad un simile gesto.
I cinque mesi trascorsi in ospedale sono stati di fondamentale importanza nella formazione del mio carattere, mi hanno temprato, concordo pienamente con il detto: tutto ciò che non ti uccide ti rinforza. Il dialogo con la Signora Orsola mi ha riportato indietro di cinquant’anni, ricordo che appena arrivato nella struttura sanitaria iniziarono subito le cure con due iniezioni al giorno di antibiotici, giornaliero prelievo del sangue a volte dal braccio a volte con la foratura del lobo dell’orecchio; fu così per tutto il primo mese, mentre nel secondo ridussero l’antibiotico ad una iniezione al giorno; ero ridotto un colabrodo tant’è (questo me lo ricordo perfettamente) che una domenica mattina una giovane infermiera apprendista (biondissima con meravigliosi occhi turchese, noi la chiamavamo la Principessa), si rifiutò di bucarmi le chiappe: “caposala, il sederino è tutto una crosta, dove infilo l’ago? “ – “Pensa sempre che lo fai per il suo bene”, e così dicendo l’Orsola prese la siringa e infilzò il mio martoriato culetto.
Vorrei far presente che cinquant’anni fa usavano siringhe in vetro molto pesanti, sterilizzate tramite bollitura in un recipiente di acciaio e l’ago veramente enorme, veniva sostituito solo quando prendeva le sembianze di un tronco d’ulivo.
Finalmente dopo il terzo mese di degenza le mie condizioni di salute migliorarono molto al punto che le analisi del sangue e urine risultavano quasi perfette, da lì la decisione di interrompere ogni iniezione. Per una settimana tutto andò bene, poi però ricomparve la febbre, sempre più alta. Il fatto più preoccupante era che le cure precedentemente attuate, non facevano più effetto, probabilmente per una forma di antibioticoresistenza che i patogeni avevano sviluppato. Ero stanchissimo, sottopeso, non mi andava di mangiare niente, ricordo che una sera il medico che principalmente si occupava delle mie cure, volle parlare ad entrambi i miei genitor. Erano in corridoio ed io mi ero messo in ginocchio sul letto per vedere oltre la vetrata che separava la mia stanza dall’andito: il dottore risultava di schiena, quando finì di parlare, mia mamma che era già molto scossa ed alterata nell’ascoltarlo, si compresse il fazzoletto che aveva preso dalla borsetta contro il viso per cercare di tamponare in qualche modo i singhiozzi; mio padre invece, buttò la testa all’indietro e si coprì la faccia con le mani; mai in vita mia avevo visto i miei genitori in quello stato.
Mia madre quando m’avevano portato e lasciato all’ospedale il primo giorno, aveva pianto parecchio ma vedere il mio papà, la mia roccia, punto costante di riferimento, distrutto da tale disperazione, mi agitò tanto, ma veramente tanto.
Finito il colloquio con il medico non entrarono subito nella mia stanza, li vidi attraverso i vetri andare in fondo al corridoio, io mi misi sotto le lenzuola e cominciai per la prima volta in vita mia, a pensare alla morte. Mia zia Orsola (omonima della caposala) mi aveva spiegato, prima in seguito alla scomparsa di nonno Oddone e poi di nonna Elena, che la morte è un sonno eterno assolutamente indolore, e così chiusi gli occhi e mi tappai le orecchie cercando di comprendere cosa avrei provato di lì a qualche giorno. Ero molto preoccupato ma non provavo terrore, o rabbia verso qualcuno, fortunatamente i bambini hanno dalla loro parte una grande dose di incoscienza che li permea dalle atrocità della vita e li sostiene soprattutto nelle situazioni più difficili. Mentre ero assorto dai miei pensieri, entrarono nella mia stanza papà e mamma, avevano gli occhi gonfi e rossi, erano stravolti ma sorridevano o per meglio dire mostravano i denti cercando di mascherare la loro disperazione. Il mattino seguente attorno al mio letto, vi fu una specie di meeting di tutti i dottori operanti nel reparto, mi fissavano come fossi una “bestia” rara, ognuno esprimeva una sua opinione sul da farsi, sulle nuove cure da intraprendere, finché uno propose di togliermi le tonsille.
Secondo lui erano la fonte dell’infezione batterica, tolte le quali avrebbero risolto il problema alla radice; gli altri specialisti non erano d’accordo, a prima vista non risultavano neppure infiammate, perché dunque operarmi ? Ma lui non demorse, fece notare che la massiccia e prolungata dose di antibiotici aveva si inizialmente funzionato, ma pochi giorni dopo aver smesso la somministrazione l’infezione era tornata più forte di prima; doveva esserci una causa scatenante.
E così il dottor Bazzana, specialista in otorinolaringoiatria ebbe la meglio e pochi giorni dopo mi furono asportate le tonsille. I miei genitori avevano una grande fiducia in questo medico, nato e residente proprio nel mio paesello, mio padre lo conosceva da sempre e lo stimava moltissimo. Ricordo la mattina dell’operazione quando l’infermiera a cui ero più affezionato (mi ripeteva spesso che assomigliavo molto a suo figlio, stessa età e stessa faccia da birba) si presentò con una grossa siringa (tanto per cambiare), mi disse che era solo un calmante e mi bucò il didietro, poco dopo si ripresentò, mi aiutò ad alzarmi in piedi sul letto e mi diede un grande abbraccio: “Tranquillo Giordano, vedrai che andrà tutto bene”, mi caricò a cavalluccio sulla sua schiena e via per la sala operatoria; mi sentivo rintronato ma mi ricordo quando l’anestesista mi chiese il mio nome e senza darmi il tempo di rispondere m’appoggiò la maschera sul viso e partii tra le braccia di Morfeo. Al risveglio i miei genitori erano accanto al mio lettuccio, continuavo a sputare sangue, tant’è che mi dovettero cambiare il pigiama ed un’infermiera mi munì di una bavagliona. Quando anche la bavaglia fu piena, mio padre cominciò a preoccuparsi e partì come un fulmine alla ricerca del dottor Bazzana. Poco dopo arrivarono entrambi, il medico mi esaminò la gola con la sua apposita pila, disse di stare tranquilli, andava tutto bene, dovevo bere tanta acqua fredda. Quando il dottore si allontanò, mio papà guardando mia madre disse: “Se succede qualcosa a Giordano, io… “, non posso concludere la frase che mi è rimasta stampata in testa per rispetto del medico a cui probabilmente devo la vita. D’altronde quando vedi tuo figlio sputare continuamente sangue in quel modo, penso che ad ogni genitore salga un poco l’ansia.
Quando deglutivo era una tortura, un bruciore insopportabile, l’alimentazione era principalmente liquida, dopo l’acqua alquanto ghiacciata cominciarono con il latte freddo, mi stupii molto quando il Fuhrer (Suor Agata) me ne portò una tazzona addizionata con un cucchiaio di cacao dolce per renderlo più invitante e stimolare così il mio appetito, un gesto d’umanità che non mi aspettavo visto i due sberloni (anzi quattro, andata e ritorno) che mi aveva rifilato 15 giorni prima – perché li avevo meritati ? – Nell’ultimo mese di degenza all’ospedale era arrivato alla mia sinistra come compagno di stanza, un ragazzone di 16 anni, ovviamente non era destinato alla pediatria ma nel reparto adulti non vi era più nessun posto letto disponibile e così sostituirono la classica brandina munita di sponde con un normale letto di degenza.
Questo giovanotto era di una simpatia straripante, sempre sorridente, solare, un autentico spandiconcime di buon umore, in breve tempo era diventato amico di tutti, bambini e sanitari, soprattutto di me che ero il suo vicino. Frequentava le superiori, amava leggere, mi regalò tantissimi Topolino (era abbonato a questo periodico da molti anni), era un gran chiacchierone, non aveva vergogna neanche del diavolo. Un giorno mi chiese quale bambina mi aveva maggiormente affascinato tra quelle oltre il vetro (le camere in pediatria erano separate da un muretto alto un metro completato da una lastra che arrivava fino al soffitto, nella stanza alla nostra testata vi erano le bambine, naturalmente separate dai maschietti), in confidenza gli dissi che mi piaceva Cristina, e lui mi fa: “Ma lei lo sa ?”, “ Certo che no ! Non vado di sicuro a dirglielo” –
Mi prese d’improvviso in braccio e mi scaricò davanti al letto di Cristina, dicendo: “Giordano ti deve dire una cosa, per lui molto importante” – Io pensavo: “Ma guarda questo stronzo che figura di merda mi fa fare” – cominciai a balbettare qualcosa finché riuscii a dirgli che per me era bella e mi piaceva tutta, mi guardò in modo strano e mi regalò un bel sorriso e poi: “Tutta in che senso ? Anche come parlo, come rido? “- “Certo, tutta vuol dire proprio tutta!” – Mi guardò con viso radioso, si avvicinò e mi strinse con un tenero abbraccio, e lì il cuore mio cominciò a tambureggiare, mi sentivo levitare tant’è stata la gioia che ho provato in quell’attimo; ero talmente rintronato di felicità che gli dissi soltanto: “Ci si vede” e me ne tornai dondolando, inebriato d’emozione nel mio lettino. Michele (il ragazzone) mi disse che ero proprio un deficiente, perché me n’ero andato senza nemmeno darle un bacino, e così mi propose una cosa “fuori di testa”: passare la notte assieme a Cristina, dormendo con lei nel suo lettino. Al momento gli risposi che era impazzito, poi alle dieci di sera quando le luci notturne lasciavano una illuminazione molto soffusa, cominciò di nuovo a tormentarmi, mi assicurò che alle 07.15 sarebbe venuto a svegliarmi (prima che il Fuhrer facesse il suo giro di ricognizione), mi lasciai convincere, sicuro che Cristina m’avrebbe mandato al quel paese, ed invece quando andai da lei e balbettando glielo proposi, quella stupenda creatura spostò le lenzuola e mi fece accomodare nel suo lettino.
Con la testa sullo stesso cuscino ci guardavamo negli occhi, poi lei mi ha accarezzato il viso, si è avvicinata e mi ha baciato sulle labbra.
Il cuore m’è partito a mille, mi sembrava di aleggiare su una nuvola, non esistevano più i muri dell’ospedale, era come fossimo su un tappeto volante ed abbracciati, ci siamo addormentati.
Purtroppo anche Michele si era addormentato, alle 07.30 la voce potente e furibonda di Suor Agata ci fece letteralmente tremare, appena sceso dal lettino mi rifilò due sberloni andata e ritorno (man rovescio) e la stessa sorte toccò alla dolcissima Cristina; me ne tornai nel mio letto con le guance che bruciavano, ma non versai una sola lacrima, anche lei non pianse, dall’altra parte del vetro alzò la testa e teneramente mi sorrise, come a dire: “Sto bene, sono felice comunque – mentre il povero Michele si batteva il mea culpa sul petto e continuava a scusarsi. Gli dissi di non preoccuparsi perché io quella notte, per la prima volta in vita mia, avevo “volato”. Un mese dopo l’intervento di tonsillectomia ero tornato quasi a nuovo, evidentemente erano proprio le tonsille la causa scatenante della setticemia, e giunse (dopo 5 mesi di ricovero) il momento di tornare a casa, anche se una volta al mese e per un intero anno, mi dovetti ancora sorbire una siringona di antibiotici (l’iniezione me la faceva mio fratello, aveva una manina “molto delicata”, sembrava mi piantasse un chiodo nel culo).
Mi sorprese molto Suor Agata non solo per le attenzioni dopo il mio intervento alla gola; in modo particolare il giorno prima della mia “scarcerazione” mi volle salutare da sola, mi disse di pregare tanto e di comportarmi sempre bene (da quale pulpito veniva la predica), fece un grande sorriso e strinse la mia testa contro la sua tonaca bianca. Mai mi sarei aspettato da parte sua un simile gesto, probabilmente anche lei aveva un cuore.
Il giorno seguente, papà e mamma arrivavarono fuori orario visite per riportarmi a casa; non riuscivo a crederci, dopo cinque mesi trascorsi in ospedale la gioia era tanta, salutammo tutti, sanitari e bambini ma quando Cristina si presentò davanti a me verso la fine del corridoio, tutta la mia euforia si spense, le nostre strade stavano per dividersi, entrambi consapevoli che quello fosse un addio (cinquant’anni fa né io né lei avevamo il telefono ed il cellulare manco esisteva), neppure ci scambiammo gli indirizzi, dieci anni d’età erano pochi per ipotizzare una relazione fuori dall’ospedale, quella bellissima fanciulla (almeno, io cosi la vedevo) mi guardava con quegli occhioni in cui mi ero perso, meravigliosa creatura artefice del mio primo bacio sulla bocca; ero in piedi imbambolato, sembravo uno stoccafisso, Lei si è avvicinata, mi ha abbracciato e baciato sulla guancia: “Giordano, vieni a trovarmi ?” “Certo che vengo”; quella stupenda fanciulla, seppur davanti ai miei genitori, aveva avuto il coraggio di esprimere le proprie emozioni (al contrario di me, cacasotto), sono uscito dall’ospedale tristemente felice, mi sentivo colpevole di menzogna, perché consapevole che non l’avrei mai più rivista. Ma il viso di quella ragazzina ed il sentimento puro e cristallino che ho provato quella memorabile notte, li conservo in me come perle di vita d’inestimabile valore.
Solo adesso mi rendo conto d’essermi perso nei miei pensieri, ero partito con la chiacchierata intrapresa assieme alla Signora Orsola, ex caposala della pediatria di Manerbio nonché “mia” infermiera di un tempo; durante il nostro parlare sono arrivato a chiedergli il perché all’epoca era sempre così triste, con quel velo di malinconia sul viso, e lei così m’ha risposto: “Era difficile essere sorridenti dopo aver fatto consecutivamente anche 3 o 4 turni lavorativi di fila (giorno – notte – giorno – notte …), stando due o tre giorni senza andare a casa, riposando su una brandina in ospedale, mangiando un boccone ogni tanto. Col fatto che non ho mai avuto figli e mio marito a casa riusciva a cavarsela, ero sempre pronta a coprire i turni delle colleghe che per i più svariati motivi erano assenti. Sono arrivata alla pensione con le gambe letteralmente distrutte, non riuscivo più nemmeno a camminare, due anni fa protesi totale al ginocchio destro e adesso a quello sinistro”.
Caspita, io in quel momento mi sono un po’ vergognato, si perché quand’ero bambino l’avevo giudicata una musona, una di quelle con la puzza sotto il naso, ed invece…
Certo che la vita è proprio meravigliosa, quante sorprese ci riserva, vabbè non sempre sono belle, ma molte volte ci porta a chiudere un cerchio, oppure a farne parte; protagonisti di storie che ci arricchiscono profondamente, addirittura in certi casi (e qui penso alla tenera, dolcissima Cristina) ci fanno volare.
Giordano