L. ha iniziato presto a fare i conti con la vita.
Ha dovuto lottare, entrando e uscendo spesso dagli ospedali. È una donna forte.
Parla a raffica, e mi racconta i suoi progressi; il suo buon umore non lascia apparentemente spazio a tentennamenti né a paturnie, men che meno a lamentazioni o rivendicazioni.
L’ascolto e la guardo. In sottofondo, vedo la sua storia. Le battaglie che ha combattuto hanno forgiato un carattere resistente. Forse più resistente che resiliente, ma comunque onore al coraggio e alla forza d’animo. Ma quelle stesse risorse –come tutto nella vita, del resto- hanno avuto un costo, tutt’ora in pagamento. Quella forza sembra imprigionare le parti umane troppo umane, quelle fragili, vulnerabili. Che sono poi quelle che ci rendono più morbidi, flessibili, e spesso anche più empatici.
L. sembra una roccia: forte, e respingente; solida, e impenetrabile. Nell’estroversione e nel suo apparente buon umore suona qualche nota stonata, sopra le righe; suona il non potersi concedere alcuna debolezza, suona il leitmotiv “chi si ferma è perduto”. Esco da quella stanza portandomi dietro un senso di peso, nonostante le parole dette tutte positive. È il non detto che pesa. Le emozioni a cui lei non ha dato voce. Spero per lei che nella sua vita abbia un tempo e uno spazio per quelle parole, per quelle emozioni.
E penso al costo delle risorse. Tendiamo spesso a pensare che le risorse siano solo cose buone, lati positivi. Non è così. Costano, e non solo in termini di fatiche o sacrifici: quelli sono più evidenti.
Ci sono costi non così immediatamente percepibili, che però incidono fortemente sul bilancio, sull’equilibrio psicologico, e di cui è importante essere consapevoli. Perché la forza che mi tira fuori da un problema è la stessa che mi imprigiona in una situazione diversa. Ciò che abbiamo costruito ci dà una forma funzionale, ma che al tempo stesso ci limita. Siamo diventati magari forti martelli in grado di piantare chiodi nei muri più ostici, ma martelli assolutamente inadeguati quando serve avvitare viti. La corazza che mi ripara e mi salva la vita in battaglia, mi fa affogare in mare.
“L’attimo che rovina l’opera lenta di mesi
giunge: ora incrina segreto, ora divelge in un buffo.
Viene lo spacco; forse senza strepito.
Chi ha edificato sente la sua condanna.
È l’ora che si salva solo la barca in panna.”
(Montale, Ossi di seppia)
Anche le nostre debolezze ci possono salvare.
È importante provare a coltivare la flessibilità psicologica, e poter utilizzare più strumenti, diversi, a seconda dei momenti e delle situazioni.
È importante allenare le nostre forze, quali esse siano. E poi allenare un po’ anche il lasciarle andare, accogliere il sentirsi spaesati, perché altre risorse possano emergere, perché altre risorse possiamo allenare. Questa flessibilità, questa continua ricerca, è un percorso evolutivo necessario.
In fondo, è l’arte della vita, e la sua bellezza.
Che non dà troppo per scontato e ci ingaggia in un viaggio attraverso terre sempre nuove, quelle del nostro mondo interiore.
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