Faccio il meccanico da una vita, ieri ho compiuto sessantanove anni e mi sono regalato un Rolex. Di seconda mano ma tenuto bene. Sono un comunista col Rolex. Così nel gruppo di psicoterapia, stasera, me ne sono uscito con un “comunista oggi, perché?” Franco, ex cocainomane alle prese con un divorzio complicato, ha azzardato una risposta, brontolata attraverso il laringofono: “perché sei un coglione”.
Ecco, mi ha fatto pensare, sta cosa. Perché dovrei vergognarmi?
Sandrone aveva appena letto la versione integrale del Manifesto del Partito Comunista e vi aveva trovato diversi spunti di discussione, ma la reazione degli altri lo aveva mandato in confusione, così rinunciò e uscì dallo studio dello psichiatra, sempre più convinto che se sei un proletario devi stare a sinistra e non ci sono cazzi, e in un bar lì vicino lesse un articolo sulla Gazzetta di Borgomanero che parlava di morti annegati. A-n-n-e-g-a-t-i.
Che modo di merda di morire. In mare aperto per ore che sembrano giorni e sentirsi sfiniti al punto di riempirsi i polmoni di acqua e smettere di respirare. Il titolo urlava: “Trentasette in meno!” Con queste parole che gli trafiggevano il cervello si avviò verso la moto, parcheggiata poco più in là. “La mutevolezza degli eventi mi ricorda che tutto scorre… Strada davanti ce n’è?” si disse, poi infilò la chiave nel quadro di una Guzzi che stava insieme con le pezze, e prese su per i monti, proprio accanto a casa.
L’aveva comprata nuova, quella moto, verso la fine degli anni ottanta. Lavorava in una concessionaria come meccanico, e adorava quelle motociclette fatte in Italia. Non erano il massimo dell’affidabilità, ma se trovavi uno bravo a metterci le mani la musica cambiava. E lui era un bravo meccanico. A casa si era costruito un piccolo garage, pieno di utensili. Persino una saldatrice, che non si sa mai. Era un mago, con le mani.
Voleva riflettere, e la serata sembrava propizia.
In poco più di un’ora, dalle sue parti, si passava dall’umidità della pianura alla fresca brezza delle colline e poi, proseguendo, si arrivava fino al freddo pungente della montagna ancora innevata, sempre seguendo la statale che collegava la bassa ai passaggi montani dei dintorni. Subito dopo un piccolo negozio di souvenir la strada girava a destra, e risaliva la collina a mezza costa. Sulla sinistra, in basso, le luci del paese e le insegne pubblicitarie si allontanavano in un bagliore caldo che copriva il fondovalle. Si fermò in un bar per indossare il giubbotto e ordinò un caffè. Dormire, quella notte, non gli interessava, e l’indomani era sabato.
Poco dopo si sedette accanto a lui sugli alti sgabelli del bancone un ragazzo magrissimo con le lenti spesse, che quasi non gli vedevi gli occhi. Masticava lentamente un panino.
“E’ tua quella Guzzi?”
“Sì, ha più di trent’anni.”
“Carina. un po’ trasandata, ne aveva una uguale mio padre in garage”
“Hai usato il passato…”
“E’ morto un sacco di anni fa, la moto la vendemmo per pagare il funerale. Non so che fine ha fatto. Se ne occupò mio fratello maggiore. Quante cose ha fatto mio fratello maggiore al posto mio, solo perché è nato prima, si è sposato prima, ha avuto figli, ha conosciuto mio padre prima che un infarto lo portasse via mentre io ero in giro per i campi in bicicletta pensando solo all’estate che stava arrivando e lui moriva.”
“Sembra interessante”, disse Sandrone, “Continua”
“Mai sentita quella vecchia leggenda giapponese del filo rosso?” – “No, non mi dice nulla”
“Il fatto è che c’è un filo rosso. Fa giri assurdi, a volte incomprensibili, e si muove con la velocità di un bradipo che dorme. Ci può mettere la metà di una Vita, spesso anche di più, per farti capire dove finisce, ma c’è. Si annida, si annoda, gira in tondo e ti lascia esasperato per poi riprenderti più affamato di prima.
E quando arrivi all’altra estremità e ti dici che per quello che c’è lì in fondo esaleresti l’ultimo respiro e glielo regaleresti, beh, è fatta. Sei nel posto giusto.”
Sandrone amava quel genere di discussioni, che partivano da una pacca sulla spalla e finivano nei massimi sistemi, ma quella sera faticava a seguire il filo. Aveva preso appunti mentre il ragazzo con gli occhiali parlava, gli sarebbero stati utili, ma il caleidoscopio di immagini che gli si affacciavano alla mente era sfocato.
Troppi sogni, troppe notti popolate di ricordi mentre cercava di chiudere gli occhi. Troppo presto per andare, troppo tardi per rimpiangere, troppo freddo per spogliare l’anima e vomitare le parole che non sapeva dire, così bevve il suo caffè, pagò il conto e uscì, rimandando all’indomani l’inizio della salutare dieta che gli aveva consigliato Martina pochi giorni prima.
Martina che non vedeva dai tempi della scuola, quando sculettava con la gonna a fiori lungo i corridoi, Martina che ora viveva accanto a casa sua, Martina coi capelli rossi e le lentiggini, Martina che un giorno gli diede un bacio sussurrandogli che partiva sì, ma forse sarebbe tornata, Martina che adesso le rughe le stavano benissimo, Martina che non gli era mai uscita dalla mente. Martina che ora cantava “Singin’ in the rain” a squarciagola in cucina e ogni poco usciva e lo inondava di baci, costringendolo a sorridere. L’amava più di se stesso, quella donna, era la luce che gli illuminava il cammino.
Spesso gli veniva l’istinto irrefrenabile di morderla, a volte piano, a volte fino a farle male, allora lei sgranava gli occhi in un misto di stupore e dolore e gli chiedeva perché lo facesse.
Sandrone si inventava ogni volta una scusa diversa, ma in verità non era mai sazio di lei…
I suoi amici lo chiamavano “Sandrone mangiastrada” perché la ingoiava con la stessa voracità con la quale ingurgitava etti di pasta arrabbiatissima all’osteria di Carpi.
Quando riponeva le chiavi del furgone sulla mensola e finalmente prendeva quelle della sua vecchia moto, il cuore gli tremava un po’, sapendo che la mezza litrata di Lambrusco che lo aspettava avrebbe fatto a cazzotti col palloncino della volante, nel malaugurato caso di controlli. Indossava il casco, la maschera col teschio disegnato e il chiodo portafortuna, pieno di patacche ricordo dei mille raduni cui aveva partecipato negli ultimi quarant’anni sulle strade di tutta Europa, tra abbuffate pantagrueliche e strizze al limite dell’infarto, premeva il pulsante dello start e godeva ascoltando il motore che ronfava allegro tra le sue ginocchia arrancando su per la salita dei garage.
I suoi vicini di casa lo sopportavano a malapena, quando li svegliava all’alba con l’urlo dello scarico libero come lui, vestito come un metallaro sul viale del tramonto, ma in fondo sapevano che non sarebbe stato capace di far male a una mosca. Un po’ lo compativano, un po’ lo invidiavano: sessantanove anni portati con la foggia di un ragazzino a cui del cuore importava poco.
Prendeva qualche pasticca, sì, ma solo per dar soddisfazione al suo dottore, che quasi piangeva leggendo i referti delle ultime analisi. “Fermati, Sandrone, fermati e curati”, gli diceva.
“Perché mai? Mi fermerò quando sarò morto, se mai morirò”, gli rispondeva ridendo e già pregustando i tre etti di pasta che Salvo gli aveva preparato per il suo sabato libero sui colli bolognesi. Amava il profumo dell’erba appena tagliata, la mattina presto quando era ancora bagnata dalla rugiada della notte. Diceva che non aveva mai visto un’alba tinta di verde, e se non l’aveva vista significava che doveva viaggiare ancora.
Quella sera aveva deciso di andare a salutare un vecchio amico che viveva in un casolare di pietra vicino all’Abetone, in compagnia di quattro enormi Terranova.
Non lo vedeva da un sacco di tempo e gli mancava parecchio.
Si fermò alla solita osteria, ordinò i soliti tre etti di penne quasi immangiabili tanto erano piccanti, si rinfrescò la gola arsa dal peperoncino con un paio di bicchieri di Lambrusco, tornò in sella e partì.
Era notte fonda quando arrivò al casolare salutato dai cani che iniziarono ad abbaiare fin dall’imbocco del viale alberato, scortandolo dentro al cortile.
Si abbracciarono a lungo, Sandrone e Giulio, in fondo si somigliavano parecchio, entrambi un po’ eremiti e al contempo bramosi di contatti col mondo che li circondava, entrambi viaggiatori incalliti che però tornavano sempre volentieri a casa, entrambi mai sazi di esperienze, che poi si raccontavano nelle lunghe notti affogate di birra, guardando la luna piena che illuminava i prati.
Fu proprio guardandola un’ultima volta che Sandrone quella notte, sdraiato sull’erba accanto a Giulio, ascoltò il suo vecchio cuore e capì che l’alba che stava arrivando sarebbe stata finalmente tinta di verde. Chiuse gli occhi e sorrise piano…
Massimo Zucca