Dico sul serio. Prova a chiudere gli occhi anche solo per un istante e sforzati di ricordare dov’eri un anno esatto fa. Il 17 novembre 2019 era una domenica. Cosa stavo facendo? Faccio uno sforzo sovraumano, cerco negli angoli più sperduti della mia labile memoria alla ricerca disperata di un indizio, un ricordo anche misero a cui aggrapparmi. All’improvviso un lampo di genio: la laurea di mia sorella. Si è specializzata a novembre dell’anno scorso, esattamente il 13. Sicuramente la domenica 17 stavamo festeggiando l’evento, nel nostro solito modo molto discreto: cinquanta invitati tra amici e parenti, stipati tra la taverna e la cucina, i tavoli allungati con improbabili prolunghe instabili e le sedie recuperate dalle camere da letto, da sotto mucchi di vestiti impilati nell’attesa di essere messi nell’armadio o a lavare. Fuori sotto il portico, una macchina per lo spiedo imponente sta lavorando dalle sette di questa mattina. La carne gira da quasi cinque ore e viene ripetutamente spennellata con del delizioso burro fuso. Siamo bresciani, non c’è festa che si rispetti senza la spiedata di rito. Sul fornello esterno, un pentolone di quelli di una volta cuoce lentamente la polenta, mentre un piccolo motore meccanico muove un grosso cucchiaio a forma di “U” che evita il formarsi di grumi. In casa, la confusione regna sovrana: i bambini corrono su e giù dalle scale, si affacciano dal soppalco e salutano con la mano i genitori, chiamandoli a gran voce. Qualcuno in taverna si lamenta che fa troppo caldo, complice la stufa che sta facendo il suo lavoro egregiamente da ieri sera, qualcun altro replica che si sta appena bene. Qualcuno è in piedi, tra le mani porta grandi piatti con gli antipasti e li allunga, alza la voce per farsi sentire, chiede se vogliono il vassoio con il salame o quello con la mortadella, corruga la fronte per capire meglio la risposta. Dal tavolo della cucina, si alza una risata collettiva, qualcuno ha fatto una battuta che ha scatenato l’ilarità generale. Chi è all’estremità del tavolo non l’ha sentita, il baccano che arriva dalla taverna è assordante, chiede che gli venga ripetuta, già con il sorriso sulle labbra. Ai fornelli della cucina, in un paio ripetono a chi si avvicina di girare alla larga, che il fuoco è acceso ed è pericoloso.
I bambini tornano al piano di sotto, si avvicinano raggianti ai genitori e per convincerli a seguirli affermano di aver trovato cose bellissime al primo piano, che valgono davvero la pena di alzarsi da tavola e fare tutte quelle scale. Riapro gli occhi e mi accorgo di avere il sorriso sulle labbra. Non so da quale momento del ricordo mi sia arrivato, ma so per certo che è spontaneo. Sapete quando vi rifilano quelle perle sulla vita nei momenti in cui siete presi a fare tutt’altro, travolti dall’inesorabile fretta con cui viviamo le nostre giornate? Cose del tipo “Nella vita conta solo essere felici”, oppure “Vivi ogni giorno come se fosse l’ultimo”, o ancora “Il mondo non è di chi si alza presto, ma di chi si alza felice”. Ecco, vi assicuro che ogni volta che mi hanno detto queste banalissime frasi, la mia reazione è stata quella di alzare gli occhi al cielo, sbuffare e poi tornare a fare quello che stavo facendo esattamente l’attimo prima.
C’è però una frase a cui negli ultimi mesi ho continuato a ripensare e che come un olio di qualità ha restituito un po’ di flessibilità a quegli ingranaggi della mia mente impegnati a rincorrere tutt’altro. La frase dice semplicemente “Quando siete felici, fateci caso.” Banale, vero? Per niente, invece. Perché io mi sono accorta che fino a non tanto tempo fa non sapevo cosa mi facesse davvero felice. Correvo così veloce alla ricerca di non so davvero cosa. Dovevo sempre fare di più, per essere di più e per valere di più. Ma questo non mi faceva felice.
Un pranzo con gli amici e i parenti, mi fa felice, per esempio. Anche se mi chiederanno venti volte quando mi sposo, perché non vado a convivere, se sono ingrassata o se mi hanno dato l’aumento al lavoro. Anche se il giorno prima dovrò pulire, sistemare e agghindare la casa come se non facessimo mai le pulizie e vivessimo in un deposito di carbone di una qualche periferia, arrivando a sera stravolta e puntando la sveglia a un orario indecente per finire le ultime cose (perché sì, gli antipasti vanno cucinati il giorno stesso, altrimenti si ammosciano).
Anche se arriverò a sera con un mal di gambe che manco dopo la scalata di sette ore del Monte Guglielmo, con almeno cinque lavastoviglie da far partire, riempi e svuota, riempi e svuota, e con tutta la casa da pulire, di nuovo. Anche se i decibel sopportati durante la giornata avranno superato di gran lunga i limiti consentiti dalla legge, anche se arriverò a sera con le orecchie così piene di parole, grida e risate da non voler nemmeno accendere la tv quando tutti saranno tornati a casa, per non rovinare il bellissimo rumore che fa il silenzio.
Anche una videochiamata con qualcuno che mi manca da morire, mi rende felice. Perché gli occhi parlano più di mille “sto bene” e di mille “non ho niente”, oltrepassano tutti i cristalli liquidi del mondo e tutte le distanze e arrivano dritti dritti nei tuoi. Perché vedere il sorriso di chi ti sta ascoltando, mentre magari stai raccontando l’ennesimo problema al lavoro o l’ennesima litigata con tuo fratello per chi deve decidere cosa guardare in televisione, ti scalda il cuore e te lo riempie fino all’orlo. Perché vedergli addosso quel pigiama o quella felpa riattiva tutti i sensi e all’improvviso ti sembra di sentire sotto il naso il suo profumo, quell’odore di sabati sera abbracciati sul divano e di passeggiate al lago la domenica pomeriggio. Perché anche se in videochiamata si è in dieci, e uno ha la connessione lenta e all’altro si sta per scaricare il telefono e a quell’altro ancora l’audio arriva in ritardo e si sente l’eco perché qualcuno non indossa gli auricolari e aspetta che provo a cambiare stanza che magari prende meglio, ecco, nonostante tutte queste cose, questo bizzarro modo di potersi vedere ci fa sentire tutti un po’ bene e un po’ meno lontani, in un momento in cui stare lontani è condizione essenziale dello stare bene. Infine, la normalità mi fa felice. O meglio, la normalità per come ho imparato a riconoscerla io, la mia normalità. Per esempio, per me è normale decidere se uscire a cena, chiedendosi se sia meglio una pizza o un all you can eat di sushi, o se stare a casa, sdraiati sul divano, tu che piangi per la storia strappalacrime di turno a C’è Posta per Te e ti domandi come faccia Maria di Filippi a restare sempre così composta e lui che invece ha già la palpebra mezza calata e si chiede cosa sia quella sensazione di umido che sente sul petto, del tutto ignaro che si tratti delle lacrime della sua ragazza. È normale decidere di partire per un weekend, prenotare due giorni prima e fare la valigia in fretta e furia per non perdere nemmeno un minuto, studiare l’itinerario mentre si è già in viaggio, sperare di non trovare troppo traffico per non sprecare tempo prezioso. È normale passeggiare all’aria aperta, stare in mezzo alla gente e alla confusione: e quello che ti viene inavvertitamente addosso e per un attimo ti fa credere che ti voglia scippare, per cui sfoderi il tuo sguardo più minaccioso e lo guardi schifata, salvo poi riparare con un sorriso sghembo quando ti accorgi che si tratta di un adorabile vecchino che è solo inciampato nei suoi piedi; e quello che riempi mentalmente di insulti perché ti passa davanti mentre sei in coda per andare al bagno al cinema, con il suo “oh scusi, non l’avevo proprio vista!”, che figurati se ti credo considerato il mio metro e quasi settanta e la mia non indifferente stazza; e quello che per attaccare bottone parte con lo scontatissimo “Scusi, è in coda anche lei per entrare al museo?”, che verrebbe anche da rispondere con un sarcastico “oh no guardi, non voglio entrare al museo, è che a casa mi annoiavo quindi ho deciso di venire qui a contare le persone”, ma non puoi e quindi sorridi e dici di sì e quello inizia a parlare e parlare e parlare e tu ti chiedi perché proprio a te e ripercorri mentalmente l’ultima settimana per capire cosa hai fatto di male. Ed è normale abbracciarsi, stringersi la mano, sorridersi mentre ci si incrocia nei corridoi, toccarsi, baciarsi. È normale stare insieme, essere in tanti, aggiungere un posto a tavola all’ultimo perché qualcuno ha cambiato idea e alla fine ha deciso di venire. È bello stare vicini e farlo senza paura. Vorrei tanto che qualcuno mi dicesse che questa normalità tornerà presto, che è questione di poco, che ci siamo quasi. Vorrei chiudere gli occhi e pensare anche io “andrà tutto bene”. Vorrei tornare ad esattamente un anno fa e non lamentarmi della confusione ma apprezzarla e vivermela, fino all’ultimo piatto da lavare, fino a quel “Ciao!” gridato da chi per ultimo sta andando via. Vorrei tanto tornare a fare quelle cose che mi rendevano felice, che pensavo essere normali, vorrei tornare a farle perché adesso gli darei il giusto valore, le affronterei come vanno affrontate. Perché adesso ho imparato davvero il valore di quella frase prima banale “Quando siete felici, fateci caso.”. Io ci ho fatto caso, e sono pronta a farci caso d’ora in avanti sempre di più.
Susanna Saletti