Quando ero piccola, stavo molto più scomoda di adesso. Ero troppo magra, troppo pallida, troppo
normale, troppo fragile in mezzo ad altri, sempre più adeguati di me. Ero a disagio nei miei panni,
ma soprattutto ero convinta che il mondo non fosse un posto per me. Era troppo grande, troppo infido, troppo spigoloso, troppo pauroso, troppo aggrovigliato perché potessi accomodarmici e rilassarmi. Come spesso, per fortuna, accade, le cose sono migliorate.
Piano piano, ho imparato ad accettare me stessa, con i miei bianchi, i miei neri e i miei moltissimi grigi, e a nuotare nel mare che, da minaccioso e terrificante, è diventato casa.
Stare comodi è una conquista, una vittoria e, nel mio caso, il frutto di un lavoro di squadra tra me e mia madre. Lei si era inventata una formula magica per cacciare i mostri, dentro e fuori. Mi guardava negli occhi e mi diceva: “Abbi fiducia”. Ci sono anni in cui i genitori sono onnipotenti. In quegli anni, l’imperativo incantato di mia madre, disintegrava, nello spazio di due parole, fantasmi, inettitudini, inadeguatezze e brutti pensieri. Credo che se allora qualcuno le avesse domandato: “Cosa desideri per tua figlia?”, lei avrebbe risposto: “Solidità e coraggio”. Perché, tra tutte le cose belle che un essere umano completo e rotondo deve possedere, erano quelle che più mi mancavano. Se, vari anni dopo, mi avessero chiesto, in quel tempo in cui portavo in giro una tristezza smisurata, uno sguardo poco liquido e un sorriso spento: “Cosa desideri per tuo nipote?”, avrei risposto, sprovveduta e leggera, senza alcuna esitazione: “La felicità, naturalmente”. E avrei evaso, con un sostantivo sognante, semplice e terribilmente incompleto, un interrogativo smisurato che contiene ambizioni, bisogni, mancanze, proiezioni, modelli, visioni.
Felicità era quello che volevo per lui, quando abitava la pancia di mia cognata, quando era piccolo, inconsapevole e bisognoso di tutto, quando scopriva il sapore della pizza o del cioccolato e si illuminava di incredibile stupore, quando cadeva per terra, cento, mille volte, e si rialzava immediatamente perché crescere è un’avventurosa necessità che richiede una tecnica ottusa e infaticabile.
Poi, da quella prima pizza e da quei primi passi, è cresciuto. E, forse, con lui, sono cresciuta anche io. E la felicità, come ambizione, non è stata più abbastanza. Cosa voglio, oggi, per il domani di un decenne ruvido e sornione, eccentrico e sognatore, torvo e seduttore?
Vorrei che fosse un uomo per bene, capace di cucinare e cucire i bottoni, di chiedere scusa e accogliere, di abbassare la guardia e dire grazie, di essere se stesso sempre, di prendersi le proprie responsabilità, di guardare negli occhi, senza abbassarli né alzarli, di domandare permesso, di fare passi avanti e indietro, di ridere disarmante. Vorrei che fosse un uomo capace di rispetto e tenerezza, d’ironia e, soprattutto, di autoironia, d’integrità e coerenza, di generosità e tolleranza. E poi vorrei che trovasse una strada da seguire, una casa da costruire, un progetto più grande di lui su cui incaponirsi.
Vorrei che potesse scegliere dove e con chi stare e che lì ci stesse comodo. Vorrei che non conoscesse l’inquietudine distruttiva di chi non sa chi è. Vorrei che avesse spalle larghe per offrire
riparo a chi non le ha. Vorrei che scoprisse un talento, una passione, un amore e ci si dedicasse come una a una missione vitale. Vorrei che un giorno, guardando indietro, sorridesse.
E anche guardando avanti.
E mentre penso a cosa desidero per lui, prendo coscienza che lui non è solo quel buffo individuo in evoluzione che mi somiglia ma non troppo. Prendo coscienza che i nipoti altro non sono che il domani. Perché i bambini sono soprattutto questo: il futuro di tutti noi.
E, per il futuro, dobbiamo avere sogni grandissimi.
Jù