Molte volte mi son sentita dire: “Non ce la faccio più”. Oggi, però, quelle parole erano incarnate in un corpo davvero sfinito. Oggi ho sentito l’esperienza di una donna che stava toccando il fondo di un limite. Il trapianto di midollo è un percorso lungo e impegnativo. Con il foulard a coprire la testa senza capelli, la mascherina a coprire naso e bocca, del suo viso ho visto solo gli occhi. Occhi vivi e stanchi. Mi colpisce sempre l’esperienza del limite, quando tocchiamo un confine che ci sembra insuperabile, che ci piega e ci fa perdere la speranza di andare oltre. E sto parlando proprio del limite più al limite; non la sfida scelta per superare se stessi, ma l’essere gettati dalla vita dove non si vorrebbe stare, l’essere obbligati a percorrere una strada che consuma le forze e di cui non si vede la fine, e a volte anche poco la direzione. Il limite dove si perde la speranza. Oggi ho ripensato alla vicenda di un alpinista, raccontata nel libro “La morte sospesa”. Dopo un grave incidente, in cui viene dato per morto, riesce a trascinarsi per giorni verso il campo base. Pensava che sarebbe morto, però si diceva: “oggi devo arrivare fin lì”, e si dava delle mete possibili, visibili, trascinandosi per raggiungerle. Metro su metro. Giorno per giorno. E riuscendo così a salvarsi la vita. Oggi pensavo che quando si vivono esperienze di limite così estremo si può solo stare e provare a resistere un passo alla volta, senza guardare oltre, perché la fine del percorso è troppo lontana e pare irraggiungibile. Ma ora su ora, giorno su giorno, la meta si avvicina. In realtà, poi, è una strategia che vale sempre, ma in quei momenti è davvero l’unica praticabile. Il limite logora e ci butta dentro alla solitudine profonda, perché lì siamo davvero soli anche se vicino ci sono persone amate, non sempre in grado di aiutare realmente, perché troppo angosciate, troppo dolenti. Lì siamo solo noi e il limite, solo le nostre forze esaurite e la vista annebbiata. Anni fa, in una camminata in montagna, ero arrivata all’ultimo tratto di forte salita stanca e con la nausea. Un amico mi aveva dato la mano, e ricordo come quel semplice gesto mi avesse aiutata a salire, a sentire nuova forza. Così, quando il limite ci sfinisce, incontrare una mano in grado di accogliere e accompagnare, una mano amorevole e ferma, è un dono della vita che lenisce la solitudine e riporta nella comunità umana. Perché l’esperienza del dolore così acuto, l’esperienza del limite, spesso portano a sentirsi esclusi dalla comunità dei viventi, degli uomini che vivono normalmente la loro vita. È un vissuto, non è necessariamente la realtà. Ma è un vissuto doloroso, che aggiunge dolore a quello che già c’è. E allora ringraziamo davvero la vita se una mano ci raggiunge e infrange la torre di solitudine che ci imprigiona. “… e udì estranea un estraneo che diceva: Iosonoaccantoate.” Rilke, Il rapimento Quell’essere accanto, quell’avere accanto…. Sono la meraviglia della vita che ridà vita e speranza. sguardiepercorsi