Milano: piazzale Negrelli in alto, la stazione metropolitana di Porta Genova in basso.
Due scatti fotografici fugaci, non perfettamente nitidi che ritraggano dei normalissimi attimi della quotidianità: l’attesa a una fermata.
Nella prima immagine, un tram è fermo. Le porte sono ancora aperte in attesa della salita degli ultimi passeggeri.
In basso, la banchina della stazione metropolitana (la linea gialla indica il pericolo della prossimità dei binari).
Nella direzione opposta, un uomo con uno zaino attende sulla panchina il suo treno. Chissà dove sarà diretto?!
In entrambe le situazioni tutto appare così calmo, piatto… normale. Eppure si è lì, ad attendere che il tram parta e che la metro arrivi.
Una sensazione, quella dell’attesa, che spesso si configura come una forte tensione interiore verso l’obiettivo o semplicemente come un’aspettativa. È proprio nel momento in cui attendiamo che quel tram parta o che quella metro arrivi, che si finisce per essere assaliti da mille pensieri che spesso trasformano l’attesa in un’eternità. C’è chi pensa alla giornata da passare in università o in ufficio, chi ricorda il litigio della sera prima o lo splendido week-end trascorso con gli amici.
Chi, senza meta, si chiede dove andare.
C’è anche chi si lascia cullare dall’attesa immaginando il suo mondo ideale e perfetto, caricandosi così di energia e positività. Momenti che spesso, come accade anche a me, sono accompagnati dall’ascolto di musica dall’iPod, vero compagno d’attesa. È grazie a questo piccolo strumento che riusciamo a ritagliarci quel nostro piccolo spazio e a estraniarci dai rumori di una città che a volte sembra essere troppo rumorosa. L’attesa dunque, per quanto a volte noiosa e impegnativa, resta pur sempre un momento che va rispettato e vissuto in ogni sua sfaccettatura.
E come disse lo stesso Cesare Pavese, “aspettare è ancora un’occupazione. È non aspettar niente che è terribile “.
Donato