Questa è la storia di Donatella in cerca di giustizia da quando il killer venuto dal buio sparò tre volte a suo padre uccidendolo. Stavano camminando insieme, dallo stadio verso casa. Era la sera del 27 gennaio 1991. Lei aveva solo 14 anni, lui la teneva per mano e le aveva appena promesso che la domenica successiva le avrebbe regalato la bandiera della loro squadra, il Messina Calcio. Suo padre si chiamava Ignazio Aloisi. Faceva la guardia giurata. Dodici anni prima aveva testimoniato contro uno dei rapinatori che avevano assaltato il suo furgone portavalori. Il rapinatore era stato condannato a 8 anni di carcere e aveva promesso di vendicarsi: quando esco ti uccido. Lo aveva fatto quella domenica sera, incurante della ragazzina che avrebbe voluto chiudere gli occhi. E che quella sera si svegliò da bimba a donna. Ci furono le indagini e il nuovo processo. Ci fu la condanna del killer a 26 anni di galera, questa volta per omicidio. Donatella aveva vinto la sua battaglia in nome del padre e in nome di quel senso di giustizia che suo padre, morendo, le aveva insegnato. Invece no. Dopo due anni il colpevole da killer diventa pentito. Riempie verbali di confessioni di altri reati. Esce di galera protetto da una nuova vita. Ma non si scorda la sua vendetta.
E questa volta dichiara che la vittima di quell’antico omicidio era suo complice: era il basista della rapina e lo aveva denunciato solo perché era insoddisfatto di come era stato diviso il bottino.Racconta Donatella: “Ero piena di furore. Non accontentandosi di averlo ucciso fisicamente, lo voleva infangare moralmente, proprio come fa la mafia quando si accanisce per cancellarti”. Il processo per calunnia le dà ragione. Gli altri membri della banda scagionano il padre di Donatella (e la sua memoria). Il killer-pentito viene condannato. Ma la calunnia viene cancellata dalla prescrizione. Così tutta la vita di Donatella continua a girare intorno a quel giorno in cui le venne strappato suo padre. Perché ora si tratta di difendere la sua storia e ottenere che anche il suo nome venga inciso nell’elenco delle “vittime della mafia”. E’ stato il dolore di quel giorno a darle la forza di continuare. Tornare a casa, tornare a scuola. Diplomarsi. Laurearsi in Scienze della comunicazione. Accontentarsi di fare la cassiera all’Ipercoop. Sposarsi, avere due figli. Sentirsi felice, ma anche in conclusa, almeno fino a quando la giustizia non sanerà quel dolore e quella beffa. Sempre continuando ad andare nelle scuole per raccontare quella fatidica scelta del padre: “Testimoniare invece di farsi i fatti propri, creder nella giustizia al punto di perdere la propria vita”. Lasciandole in eredità un esempio , e una ferita.
(di Pino Corrias, Vanity fair)
Un ringraziamento a Nonna Grazia e Angelo Bonanomi)