Verso la fine dello scorso anno, il numero di giovani disoccupati in Gran Bretagna ha superato per la prima volta il milione. Ispirandosi a questo dato di fatto, Ken Loach, da sempre sensibile nelle sue pellicole alle tematiche lavorative, ne trae la storia di Robbie: una storia che riguarda una generazione (quella di tanti giovani che, spesso, hanno come unica prospettiva quella di un futuro vuoto). Conosciamo così un giovane (Paul Brannigan) che ha avuto un’infanzia molto dura: è rimasto coinvolto in episodi violenti, ha scontato una pena piuttosto lunga in un carcere minorile ed ora sta cercando di rimettere in sesto la sua vita. È intelligente e riflessivo ed ha incontrato Leonie, una ragazza (Siobhan Reilly) a cui tiene molto e dalla quale sta per avere un figlio.
Dal punto di vista dei genitori di lei, la relazione tra i due è ritenuta disastrosa, poiché lo considerano solo un teppistello e un giovane criminale. Immaginano che Robbie non abbia praticamente alcuna possibilità di farsi una vita degna di questo nome e, men che meno, di garantirla alla loro figlia e al futuro nipote. Per questo motivo ricorrono ai metodi della strada per separarli. Robbie è in una fase in cui deve lottare per essere padre, per essere genitore, per guadagnarsi in qualche modo da vivere e mantenere la sua famiglia. All’inizio, ovviamente, non sa come farlo; non vede una via d’uscita alla sua situazione. Ha perso l’opportunità di studiare a causa del mondo (di delinquenza) da cui proviene.
Come venir fuori da questo empasse? Forse una mano la può dare Harry: il coordinatore di alcuni ex carcerati che tornano in libertà con la promessa di dedicarsi per un certo numero di ore ai lavori socialmente utili. Sarà proprio lui che, rendendosi conto della spiccata predisposizione di Robbie a riconoscere i vari tipi di whisky, lo avvierà su una strada del tutto inaspettata, che gli aprirà un futuro inatteso. Ma a quale prezzo? Un racconto, quello di Loach, popolato da volti sconosciuti, ma al tempo stesso realistico e magico: una favola su un talento sprecato e su cosa può succedere quando la vita ci offre un’occasione. La nascita di un figlio, esperienza meravigliosa che ti cambia la vita per sempre; una società dove, specialmente i giovani, non hanno un lavoro regolare. Due realtà che si fondono nel personaggio di Robbie offrendoci buone potenzialità drammatiche seppur marcate, qua e là, da un calibrato (e mai fuori luogo) sense of humor. Convinto che la possibilità di un riscatto sociale vada più che mai offerta, il modus operandi del regista ci ricorda come, talvolta, dimentichiamo l’importanza delle circostanze fortuite e fortunate della vita. Non crediamo che l’incontro della persona giusta al momento giusto, possa cambiare per sempre il corso di un’esistenza. Una piccola intuizione, una breve esperienza, un gesto di generosità d’animo: situazioni tutte che possono produrre risultati duraturi.
“Noi esseri umani siamo definiti dal nostro lavoro. Che tu sia un artigiano o un operaio specializzato nel settore edile, un falegname, un intonacatore o quant’altro, è quella la tua identità ed è quella la percezione che hai di te stesso. Oggi sono tante le persone che non hanno questo. Sono solo quello che viene detto loro di essere, ovvero richiedenti di sussidio o degli assistiti e vengono scrutati costantemente, nel timore che imbroglino. Che senso di valore si può attribuire ad una vita in questa situazione?”.
Una vicenda piena di fiducia e di aspettative. Quelle attese demandate a soggetti che, caritatevolmente, si sacrificano un po’ in favore di altri sventurati. Quella rinuncia ad una parte di se stessi che assomiglia proprio a quella parte di alcool (da qui il titolo della pellicola) destinata ad evaporare durante l’invecchiamento dello whisky. Una privazione che, alla fine, provvede ad uno scopo encomiabile.