“Durante la mia lunga carriera nell’industria del cinema ho ricevuto moltissime sceneggiature, anche per il mio noto interesse per il lavoro di nuovi registi. Purtroppo solo molto raramente ci si imbatte in una buona sceneggiatura. Quando ho letto “The orphanage”, mi sono reso immediatamente conto di avere a che fare con un’eccezione”. A parlare così è nientemeno che Guillermo Del Toro in persona (il suo nome, non a caso, domina in maniera palese sulla locandina del film), padre di quel cinema fantastico – in tutti i sensi – che annovera titoli come “La spina del diavolo” e “Il labirinto del fauno”. Ritorna il tema dell’orfanotrofio (forse un po’ inflazionato in questi ultimi anni) ma che al regista Juan Antonio Bayona ha fruttato ben 7 Premi Goya, tra cui Miglior Regista Esordiente e Migliore Sceneggiatura, grazie all’abilità con cui padroneggia un linguaggio audiovisivo – originale pur trattandosi del suo primo lungometraggio – che ci offre un’interpretazione molto personale dei luoghi e delle convenzioni del cinema di genere. Nel posto della sua infanzia, dove è stata ospitata da piccola, Laura ritorna con l’intento di ristrutturarlo e renderlo un centro per bambini disabili. Assieme a lei il resto della famiglia: il marito e il figlio (Simon), affetto da una grave malattia. Improvvisamente il bambino, dopo aver raccontato alla mamma della nuova amicizia con alcuni bambini invisibili, sparisce misteriosamente durante un’escursione in una grotta vicino al mare. Alla sua scomparsa si contrappongono, invece, le apparizioni del fantasma di Tomas: un bambino, ospite dell’ex orfanotrofio, deformato in viso e che si dice sia morto già da parecchi anni. Laura dovrà fare di tutto per ritrovare suo figlio senza compromettere irrimediabilmente la propria stabilità mentale. Storia ben costruita, farcita di mistero e di suspence (brividi assicurati anche solo con le angoscianti urla dei bambini durante la seduta spiritica), il racconto inquietante di fenomeni sovrannaturali ha molto in comune con un genere di cinema fantasy che oggi si vede raramente. Non si tratta, per fortuna, dell’ennesimo rimaneggiamento degli elementi classici del genere: case stregate, fantasmi, universi paralleli e via dicendo. E così facendo si distingue elegantemente da quegli pseudo-horror dell’era contemporanea che vogliono fare affidamento solo sugli effetti speciali per far paura allo spettatore. Nella grande casa coloniale del secolo scorso l’atmosfera che regna è davvero misteriosa. Ed è proprio qui che si sviluppa l’orrore raccontato nella pellicola: quell’orrore che non proviene dall’esterno, o dalla mente di uno psicopatico, né dal fatto che i personaggi si aggirino in qualche luogo proibito. È un orrore che nasce in un luogo idilliaco: nel cuore di una famiglia perfetta, dove cresce in modo inatteso, nascondendosi nelle cose di tutti i giorni, minacciando di distruggerla completamente fino a spalancare le porte della pazzia. Proprio come “Il sesto senso”, “The others”, “La spina del diavolo” (dello stesso Guillermo Del Toro), che hanno dato prova del loro potenziale senza dover far ricorso a superflui effetti visivi per ipnotizzare il pubblico, anche “The orphanage”, pur non raggiungendo tali livelli, riesce a minacciare la nostra stabilità attaccandoci su temi come la malattia, la deformità, l’handicap, la separazione, il dolore causato da una perdita. Un buon ritratto psicologico di chi ripiega sul passato quando non riesce ad affrontare il presente. Per gli amanti del genere si traduce in un piccolo gioiellino da non lasciarsi sfuggire … visto che è impresa sempre più ardua trovare qualcosa che degnamente si possa catalogare come “horror”. Piergiorgio da Bonate Sopra (Bg)