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IL LUPO MANNARO

Prima di iniziare il racconto vero e proprio ritengo opportuna una premessa parlando un po’ di animali. E non quelli domestici come cani, gatti e canarini che sono stati ormai snaturati. Prima della civiltà industriale, che ha cambiato radicalmente le nostre abitudini, la gente contadina viveva molto più vicina agli animali perché legata dagli stessi bisogni: ripararsi dalle intemperie e trovare il cibo per la sopravvivenza. E molte volte, anche per necessità, l’uomo si vestiva con la pelle degli animali principalmente per favorirne la caccia non sentendosi per questo degradato. C’è anche una trasformazione, per niente buona, anche ai nostri giorni, quando l’uomo non assume solo l’aspetto della bestia ma ne prende anche gli istinti e la ferocia. Ed eccoci al “lupo mannaro” conosciuto sotto tutte le latitudini. Che bene o male ha dato lo spunto alla stesura di questo racconto. Ormai è diventata un’abitudine, non solo per festeggiare i compleanni, in un liceo di una città di provincia, che non nominerò perché questa è una storia vera, gli ex allievi hanno organizzato una festa per ricordare i begli anni della scuola e della gioventù. (Che te n’accorgi quanto è bella quando non c’è più!). Per vent’anni Mirella, soprannominata Miù Miù, non aveva voluto di proposito partecipare alla festa del ricordo non soltanto perché una sua amica le aveva confidato come queste ricorrenze sono spesso un noioso confronto di sovrappesi, acciacchi, rimpianti, calvizie, separazioni, pancette in continuo aumento e sogni in fase calante, ma perché c’era un ricordo per lei molto triste: l’ultimo giorno di scuola di vent’anni prima, nella stanzetta del bidello quando tutti erano nella sala magna a festeggiare la chiusura dell’anno scolastico, lei era stata violentata. Ragazza esuberante, senza dubbio la più carina di tutto il liceo e il suo “lupo mannaro” compagno di classe: il primo bullo di tutta la città. Arrogante e bell’imbusto, uomo di spicco nella squadra di pallavolo e primo attore nella compagnia del teatro, aitante e idolo di tutte le studentesse e non solo. Ostentava un certo fascino virile che qualcuno definiva alquanto burino, anche se richiamava una mal riuscita fotocopia di Casanova. Miù Miù era a conoscenza che il suo violentatore sarebbe stato presente alla festa. Vanitoso com’era amava l’adorazione dei suoi ex compagni e soprattutto compagne, un po’ come usava fare il “pipe de oro”. Ma questa volta Miù Miù si era proposta di essere più forte del brutto ricordo. Si fece tanto coraggio e si vestì come allora constatando con un certo orgoglio che a quasi quarant’anni di età entrava ancora per benino nella gonna e nella camicetta che indossava ai bei tempi quando studiava il latino e s’inteneriva a leggere le storie di Renzo e Lucia, Paolo e Francesca, Giulietta e Romeo. Pure lui, “il bello” indossava lo stesso giubbino alla Marlon Brando in “fronte del porto”. Anche il suo cinico sorriso non era cambiato. Sempre “lupo mannaro” comunque. Si salutarono cordialmente, almeno in apparenza, come due vecchi amici. E lui aggiunse un complimento che le sembrò sincero: “Ma per te gli anni non passano?!” Miù Miù aveva deciso questa volta di giocare la partita fino in fondo e gli diede una risposta appropriata. Poi arrivarono i dolci e lo spumante per una bevuta in allegria come quella sera. Tutti vollero rivedere le vecchie aule, la palestra, la direzione. A Miù Miù tremavano un po’ le gambe quando vagando per i corridoi, la scala, i locali vuoti, si ritrovò nella stanzetta del bidello: l’incubo della sua vita. Si fece coraggio. Aveva deciso che quella sarebbe stata la sua medicina, per guarire e cancellare il brutto ricordo. Per meditare e farsi una ragione su come fosse stato possibile commettere un simile errore. Dalla porta semiaperta che dà sullo sgabuzzino uscivano come allora gli stessi odori di umido, di chiuso, di poco di buono, che completavano in quadro. “Ero sicuro che ti avrei ritrovata qui” disse lui: “In fondo ti era piaciuto! Ma di sì una volta! Dai, non fare la schizzinosa!” Rise mettendole le mani addosso: “Su, facciamolo un’altra volta come vent’anni fa. Una cosa sveltina!”. “No! Adesso no! Non toccarmi! Non farlo! Non voglio! Guarda che se continui è uno stupro! Lo sai che è uno stupro?” Ma lui niente, Rideva, frugava, armeggiava, spingeva. Frenò di colpo quando la luce si accese e un uomo uscì dal buio del ripostiglio. “La dichiaro in arresto per violenza e stupro. E’ mio dovere avvertirla che tutto quello che dirà sarà messo a verbale”. Prima ancora che il lupo mannaro riuscisse a tirar su i pantaloni il poliziotto, marito di Miù Miù, che le aveva messo in guardia nello sgabuzzino perché era più che sicura che il suo violentatore non avrebbe resistito al ritorno sul luogo del delitto, gli aveva messo le manette ai polsi. Da vent’anni la nostra protagonista aveva covato il progetto di vendicarsi e si era accordata col marito poliziotto. E così con le braghe e le mutande alle caviglie, il “lupo mannaro” sfilò in processione davanti a tutti gli studenti e i professori che increduli e con gli occhi spalancati guardavano l’insolito spettacolo, fin alla macchina della polizia. Ci sono stati anche applausi, ma questa volta non per il Casanova borioso ma per Miù Miù, che aveva le lacrime agli occhi per la gioia e la rivincita. Perché quest’ultima partita l’aveva vinta lei. Epilogo Che non è l’ultima parte del racconto perché in questo caso poteva anche essere la prima in quanto calza a meraviglia. Miù Miù ricordava che il suo professore di filosofia, quando era ancora all’ultimo anno di liceo, ripeteva una frase o forse sarà meglio dire, un concetto di un luminare dell’antichità che insegnava ai suoi alunni: “La natura ha messo ad una estremità opposta un qualche cosa che esige continui rapporti sociali. Vi dico che le due estremità sono buone o cattive a seconda di quello che si va a riempire lo spazio che sta in mezzo. Metà della nostra vita viene spesa ad escogitare nella nostra testa qualche cosa con cui riempire questo vuoto. E l’altra metà è presa dalla cosciente necessità dei rapporti sociali con tutte le loro conseguenze. Quello che resta appartiene alla sfera spirituale come i turbamenti dell’anima e le lotte intime. Io sono felice perché non ho ambizioni di gloria o di conquista di nessun genere. E mi sento ricco perché ho ridotto al minimo i desideri”. Non ho la pretesa che tutti concordino. Ma siamo alla frutta. Giuseppe Paganessi

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