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IL PASSO DEGLI UCCELLI MIGRATORI

Tanti anni fa, poco prima della guerra, sono stato testimone di una curiosa situazione che mi piacerebbe raccontare. E non mi interessa perché ancora mi commuove, o mi meraviglia o perché mi fa pensare, ma perché mi rammenta un ricordo della mia giovinezza, “Giovinezza!” Quell’età felice della vita che ha un nome lungo e breve. Cominciamo dal personaggio chiave di età difficile da indovinare: facciamo sui trent’anni. Non sapevo da dove venisse, in quale paese trascorresse la sua povera vita. Non occupava posto. Quando non c’era non si parlava di lui, né mai si pensava a lui. Era uno di quegli esseri pallidi che restano sconosciuti e come inesplorati anche ai loro vicini e quando muoiono non fanno né vuoto né solitudine in una casa. Uno di quegli esseri incapaci di entrare nella vita, nelle abitudini e nell’amore di chi vive accanto a loro. In questo racconto lo chiameremo Gigetto. Ricordo che aveva sempre fame e se gli davi un soldo declamava ogni volta la stessa poesia né sacra né profana. Poi correva dal fruttivendolo a comprare un soldo di castagnaccio che gli piaceva tanto e che costava poco. In diverse occasioni gli mettevano davanti due monete: un aquilino d’argento, piccola moneta del valore di cinque lire – la paga di un operaio medio per una giornata di lavoro – e una moneta da una lira, più grande dell’aquilino ma di nichel. Poi gli facevano scegliere: “Dai Gigetto! Quella che scegli è tua!”. E lui, dopo un momento di esitazione, sceglieva sempre la lira. E i bontemponi che avevano proposto la scelta se la ridevano da matti. Ricordo che mi faceva pena. La sua poesia la sapevamo a memoria. Ma lui non se ne andava perché non conosceva altro che quei luoghi dove era nato. Aveva stabilito dei confini alla sua vita, alla sua mendicità e non li avrebbe mai varcati. Io dico che non sapeva se ci fosse dell’altro mondo dietro quelle case che gli chiudevano l’orizzonte, né se lo domandava. Forse aveva paura dell’ignoto, la paura del povero che teme mille cose: volti nuovi, ingiurie, sguardi sospettosi di chi non lo conosce. E sempre con quell’atteggiamento genuflessorio e sottomesso. Perciò era ritenuto da tutti un po’ tonto, un po’ “suonato”. Da diversi anni in autunno andavo a caccia con l’amico Raimondo. Lui passava per la persona più ricca del paese. Aveva la macchina: una Fiat 500 giardinetta. Partivamo alle tre di notte per arrivare all’alba in Piemonte nelle risaie di San Germano, Vespolate, Santhià dove infuriava il “passo” degli uccelli migratori. Gigetto lo sapeva ed un giorno chiese a Raimondo se poteva fargli un regalo e cioè portarlo con sé ad una battuta di caccia. E così fu. Gigetto venne con noi. Arrivammo a San Germano all’alba. Il passo degli uccelli migratori era già cominciato col loro grido errante, smarrito, malinconico. Niente mi commuove più di quel lieve segnale di vita che appena si sente prima che appaia all’orizzonte l’alba di uno di quei limpidi giorni d’autunno. Poi: come se fosse scoppiata la guerra, spari di doppiette da tutte le parti. Gigetto era sorpreso, silenzioso, meravigliato, incredulo. Verso mezzogiorno, causa un accenno di nebbia, pensavamo di far ritorno per arrivare a casa prima che facesse di nuovo buio, quando due uccelli a bassa quota stavano passando sopra di noi. Raimondo prese la mira e sparò. Uno cadde proprio vicino a Gigetto. Era un’allodola dalle piume bianche sul petto. Allora un grido d’uccello, un lamento breve, ripetuto, straziante. E l’altro uccello risparmiato si mise a far la ruota nel cielo azzurro guardando la sua compagna morta che Gigetto teneva in mano. Raimondo disse: “Ho ucciso la femmina, il maschio non se ne andrà”. E infatti non se ne andava e gemeva sopra di noi. Girava, girava, poi fuggiva sotto la minaccia del fucile puntato. Non sembrava deciso a proseguire il volo, attraverso il cielo verso terre lontane, tutto solo. Ritornava ostinato a cercare la compagna incurante del pericolo, impazzito forse per amore. Un altro sparo. Raimondo era bravo a centrare il bersaglio al volo. L’altra allodola cadde. Gigetto corse a prenderla. Era la prima volta che lo vedevo piangere. Se le strinse tutte e due al petto come per ridar loro la vita. E non volle più saperne di mollarle. Durante il viaggio di ritorno abbiamo volutamente portato il discorso anche sulla scelta, che di tanto in tanto veniva in paese proposta a Gigetto, tra l’aquilino d’argento da cinque lire e la lira. E questa è stata la sua risposta: “Volete che io non sappia che l’aquilino vale cinque lire? SE SCELGO QUELLO PERO’ PER ME E’ L’ULTIMA VOLTA!” E Gigetto era ritenuto un tonto, un “suonato!”. Ancora oggi mi domando se invece i “suonati” non eravamo in tanti. Giuseppe Paganessi

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