Tutti, anche quelli che per anni hanno ostentato ottimismo, parlano ormai di crisi economica e di paura del futuro. Chi sta nel sociale, sul territorio, sulla strada lo tocca con mano da tempo e ne ha segnalato, inascoltato, le avvisaglie. È una crisi da cui non si uscirà facilmente. Se ne uscirà solo – a dispetto di chi, dopo averla provocata, ne promette il superamento grazie a una nuova crescita dietro l’angolo – con trasformazioni sociali profonde. E, soprattutto, non chiudendo gli occhi. Perché la crisi non è uguale per tutti. Non è uguale per i vecchi che frugano nelle pattumiere e per i 200.000 acquirenti annui di auto di lusso da 100.000 euro e più. Non è uguale per i milioni di giovani senza lavoro o con lavori finti e per chi incrementa rendite miliardarie, evadendo ogni forma di tassazione. Non è uguale per chi muore di lavoro nero e pericoloso pagato quattro euro all’ora e per chi si arricchisce sfruttando quel lavoro. Non è uguale per l’operaio che guadagna 1.000 euro al mese e per l’amministratore delegato che guadagna più di quattrocento volte tanto. La crisi è una lente di ingrandimento che mostra anche a chi non vuole vedere due mondi diversi e divaricati (accompagnati da una zona grigia che slitta sempre più verso la povertà). Due mondi che non si parlano, dove la parte soddisfatta della società sembra vivere come problema la presenza e la visibilità degli ultimi. Vista dalla strada la crisinon riguarda né il prodotto interno lordo (il mitico Pil), né il crollo delle borse, troppo lontani per poter essere misurati e compresi. Vista dalla strada la crisi riguarda le condizioni di vita, sempre più difficili, delle persone. L’economia ha le sue leggi e i suoi saperi. Ma se non servono a migliorare le condizioni di vita delle persone, sono leggi e saperi inutili. Parliamo, allora, delle condizioni delle persone.Susette miliardi di donne e di uomini che abitano il pianeta, due miliardi vivono – quando vivono – in condizioni di povertà assoluta, con un reddito giornaliero al disotto di due dollari (cioè di un euro e mezzo); chi vive in condizioni di povertà relativa, poi, è la maggioranza; e ogni anno muoiono di fame – nella indifferenza dei più – sei milioni di bambini. Con la crisi, il problema della povertà è diventato centrale anche nel ricco Occidente. Così, in Italia, vivono in condizioni di povertà relativa (corrispondente a un reddito di 983 euro mensili per una famiglia di due persone) quasi otto milioni di persone; un italiano su tre (uno su due al Sud) non è in grado di far fronte a una spesa imprevista di 700-750 euro nell’anno. È povero un bambino ogni quattro ed è disoccupato un giovane su tre. Un giovane su cinque è così sfiduciato e frustrato che il lavoro ha smesso di cercarlo. In termini di valore reale i livelli delle retribuzioni diminuiscono, e – come avvenuto nello scorso ottobre a Barletta – si può morire di sottolavoro. Lo spettro della povertà poi, un tempo limitato a chi era privo di occupazione, lambisce ormai una quota crescente di lavoratori. (…) Di fronte alla crescita del disagio esistenziale, si sta consolidando la tendenza a rimuovere o a governare in maniera repressiva i fenomeni di cui non si ha più cura, ignorando il disagio e la sofferenza delle persone. È accaduto – sta accadendo – per la povertà, per la marginalità, per la devianza, per l’immigrazione. Il lavoro, quando c’è, è privato del suo ruolo sociale e della dignità, anche simbolica, che ha avuto finché è stato riconosciuto come elemento essenziale della nostra identità. Ma un lavoro subordinato al profitto, ridotto a mezzo per garantire la ricchezza di pochi e – nella migliore delle ipotesi – la semplice sussistenza degli altri, impoverisce la vita individuale e quella sociale. Insieme alle relazioni umane, il lavoro è la base della nostra identità. Senza il rispetto delle attitudini, delle passioni e dell’intelligenza delle persone, il lavoro non contribuisce alla costruzione di una società, ma al massimo produce “aggregazioni”, dove ciascuno trova posto (quando lo trova) non in base alle sue capacità ma alla sua funzionalità, valutata secondo princìpi di pura e semplice convenienza economica. È il meccanismo che ha governato la cosiddetta flessibilità, concetto con cui per anni si sono giustificate le leggi – loro sì inflessibili – del mercato: la disponibilità delle persone ad adattarsi alle attività più disparate senza garanzie contrattuali e senza la possibilità di fare del lavoro il nucleo intorno a cui costruirsi sicurezza materiale e dignità sociale. Sono i diritti a garantire la trasformazione dello sviluppo economico in progresso sociale. La disuguaglianza, quindi, non è solo un’offesa alla loro sacralità, una lacerazione dell’etica. È un controsenso economico. La disuguaglianza non conviene a nessuno. L’attuale situazione di crisi è la dimostrazione di come un sistema fondato sulle disparità e su profitti non equamente distribuiti finisce per impoverire tutti. Quasi sempre, nella storia, i poveri sono stati considerati un pericolo e una minaccia per la società e, conseguentemente, sono stati rinchiusi o allontanati. Ed è stato un fiorire di case di correzione, di ospedali, di depositi di mendicità, di prigioni. Ci siamo illusi che la modernità avesse voltato pagina. Non è stato così, soprattutto negli ultimi tempi, in cui persino molte fortune di partiti e formazioni politiche sono state giocate sulla propaganda di idee e progetti di esclusione degli ultimi e dei non omologati. Penso al susseguirsi delle ordinanze di sindaci di città e paesi relative a un’infinità di comportamenti ritenuti lesivi dell’ordine pubblico, della tranquillità, del decoro. Penso alla criminalizzazione dei lavavetri per i quali, pur a fronte di un fastidio marginale, si è arrivati a invocare il carcere. Il problema della società diventa – torna ad essere – la presenza degli ultimi: i lavavetri, e con essi, i matti, i tossicodipendenti, i mendicanti, gli ambulanti senza licenza, i venditori di fiori o di fazzoletti, gli zingari, i barboni, i questuanti, le donne sfruttate sui bordi delle strade, in un elenco potenzialmente senza fine. A infastidire i benpensanti non è più la povertà ma la sua visibilità. I fatti sono eloquenti: è impensabile pensare di superare la crisi complessiva che attraversa il Paese (e l’intero Occidente) se non si parte dalla premessa che il valore economico è inscindibile dal valore sociale e che un’economia sganciata dai bisogni e dalle speranze delle persone – ossia dalle loro vite – produce un sistema inaffidabile che provoca falsi valori. Per anni ci è stato detto che il “libero mercato” sarebbe stato in grado non solo di regolarsi grazie a una presunta “mano invisibile”, ma addirittura di produrre un effetto a cascata di cui tutti avrebbero beneficiato. Era – a voler essere indulgenti – un’illusione, ma ribadita con tale insistenza da diventare una specie di dogma. Le analisi che vanno per la maggiore dicono che la malattia economica va curata facendo tornare i conti a suon di tagli e di sacrifici che, guarda caso, riguardano sempre la spesa pubblica e i servizi sociali. Solo così – si dice – il sistema può riprendere fiato, la gente consumare, e l’economia del Paese tornare a essere competitiva. Andare avanti – vorrebbero farci credere – è impossibile, se non ritornando indietro, a quando eravamo alle prese con la rivoluzione industriale ed erano ancora di là da venire le conquiste del secolo scorso in tema di lavoro: dignità, salario, sicurezza, diritto di sciopero, equa proporzione tra tempo del lavoro e tempo della vita. Lussi, viene detto, che oggi non possiamo più permetterci, zavorre di cui dobbiamo al più presto disfarci, senon vogliamo soccombere nella corsa sfrenata allo sviluppo. Continuo a credere che non sia così. Luigi Ciotti